I cronisti possono ricevere minacce o querele che intendono limitare la loro libertà di espressione. E talvolta è persino necessaria la protezione di una scorta
«Italy is among the countries with the highest number of alerts posted on the Platform in 2018» («Nel 2018 l’Italia è tra i paesi col più alto numero di segnali d’allarme pubblicati sulla Piattaforma [per la libertà di stampa]»). Così si legge nella relazione annuale per il 2019 redatta dalle organizzazioni partner della Piattaforma del Consiglio d’Europa per la protezione del giornalismo e la salvaguardia dei giornalisti (Democracy at risk: threats and attacks against media freedom in Europe).
In più, l’Osservatorio Ossigeno per l’informazione ha contato 72 intimidazioni a giornalisti italiani nei soli primi mesi del 2019. Un paese in cui un giornalista che decide di condurre un’inchiesta debba sentirsi condizionato dalla pressione delle minacce è un paese in cui la libertà di espressione è sotto attacco. Gli atti intimidatori possono assumere svariate forme: querele temerarie, lettere minatorie, buste contenenti proiettili, avvertimenti e attacchi espliciti. Fino alle minacce di morte, provenienti anche dalle organizzazioni mafiose, motivo per il quale alcuni giornalisti sono costretti a vivere sotto scorta: Lirio Abbate, Federica Angeli, Sandro Ruotolo, per citarne qualcuno. I dati raccolti dall’Osservatorio Ossigeno per l’informazione relativi alle minacce ricevute dai giornalisti nel periodo 2011-2018, ci rivelano che la Campania è la regione più pericolosa per i cronisti che scrivono di vicende di mafia, con oltre 159 denunce relative a intimidazioni e aggressioni. Seguono il Lazio con 168 denunce, la Sicilia, la Puglia, la Lombardia, la Calabria e l’Emilia-Romagna.
In questo scenario l’inchiesta è, per i cronisti, il genere più complicato e rischioso. Chi conduce un’investigazione giornalistica passa giorni, anche mesi, a fare luce su situazioni che sono, invece, tenute nel buio nel quale, per alcuni, è conveniente che restino. Impiega tempo e risorse, certifica le notizie con le proprie fonti, ricostruisce le dinamiche, collega nomi e cognomi. E questo preoccupa molti.
Il giornalista d’inchiesta diventa “scomodo” nel momento in cui decide che il suo lavoro si fa sul campo, dove i fatti accadono, parlando con le persone del luogo. E non seduto dietro una scrivania con gli occhi fissi sul monitor di un computer. Quando il lavoro, però, viene ostacolato da minacce e querele, si passa al condizionamento della vita privata del cronista. «Te tolgo la serenità, anche dentro casa», «la signora ha una figlia bellissima, iniziamo da lei?», si è sentita dire la Angeli da un membro del clan Spada di Ostia, mentre conduceva un’inchiesta per conto de la Repubblica. A seguito di queste e altre minacce, le è stata assegnata una scorta. Non è semplice accettare il paradosso per cui è il giornalista a perdere la propria libertà piuttosto che chi lancia intimidazioni. Ma come mai la verità fa così paura? Perché non viene pienamente attuato l’articolo 21 della nostra Costituzione, secondo cui tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione e la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure?
Aveva, pertanto, certamente ragione Pippo Fava (1925-1984), che per questo valore ha sacrificato la propria vita, toltagli brutalmente dalla mafia: «Io ho un concetto etico di giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo».
Silvia Franzone
(Lucidamente, anno XIV, n. 165, settembre 2019)