Un fenomeno tutto giapponese si trasforma nel nostro Paese, anche a causa di recenti fatti di cronaca, in un melodramma psicosociale condito pure da ingenuità e inesattezze
La parola hikikomori, solo a sentirla, fa orrore. Il nome di una popolazione aliena giunta da lontano per sterminarci? Invece, è la semplice contrazione dell’espressione giapponese shakaiteki hikikomori, in inglese social withdrawal, in italiano «ritiro sociale». Mettiamo via i popcorn: non esistono «gli hikikomori», bensì «soggetti in hikikomori», ovvero in reclusione. Per almeno sei mesi.
Lo scorso sabato 29 giugno un ragazzino torinese si è gettato dalla finestra di casa perché la madre voleva togliergli la tastiera del suo pc. Quindi tantissimi pensano che anche in Italia i casi di allontanamento dalla realtà sociale siano molti. Ma è davvero così? Karin Bagnato, ricercatrice presso l’Università di Messina, ne parla in un’agile sintesi (L’hikikomori: un fenomeno di autoreclusione giovanile, Carocci, Roma 2017), grazie alla quale ha conquistato, l’anno scorso, il Premio italiano Pedagogia. Fu Tamaki Saitō, negli anni Ottanta del secolo scorso, a coniare il termine. Lo psichiatra definiva così la situazione di giovani e adulti giapponesi, autoreclusi tra le pareti della propria camera da letto. Senza alcun contatto con il mondo esterno. Internet ancora non c’entrava: musica, anime e manga costituivano gli unici svaghi per quei maschi primogeniti che abbandonavano tutto, scuola sport lavoro, per starsene soli. Perché? In Giappone, il padre, assente fisicamente, vive solo per lavorare. Agli occhi del figlio costituisce un simbolo virile inarrivabile. La madre, al contrario, fonda il suo ruolo su una protezione abnorme della prole. L’amae, un rapporto affettivo morboso tipico del Sol Levante. E il cui significato trascende il singolo adolescente recluso. Qui ne trovate un resoconto esaustivo.
Le caratteristiche specifiche della società nipponica spiegano dunque, senza troppe difficoltà, l’eziologia di un’emarginazione totale, ostinata. In molti casi, violenta. E in Italia? Nel 2017, quattro anni dopo aver inaugurato il sito www.hikikomoriitalia.it, Marco Crepaldi, laureato in Psicologia sociale all’Università Bicocca di Milano, ha fondato l’associazione Hikikomori Italia. Carla Ricci nel suo curriculum risulta ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia clinica dell’Università imperiale di Tokyo ed è considerata la maggior esperta italiana sul tema. L’ultima delle sue quattro monografie, tutte su questo argomento, riguarda proprio il confronto tra il caso giapponese e italiano (La volontaria reclusione. Italia e Giappone: un legame inquietante, Aracne, Roma 2014). Ma chi legge o ascolta le loro parole trova, più che un legame, profonde differenze.
Innanzitutto, i numeri. Come riporta Bagnato, in Italia si conterebbero trentamila soggetti in ritiro sociali, tra gli 11 e i 17 anni. Lo 0,05% della popolazione totale. Saitō, in patria, ne contava più di un milione (0,77% sul totale), con un’età media di 31 anni. Il record di anni trascorsi in ritiro? In Giappone, 15; da noi 5. E, poi, in Italia, non è proprio una reclusione. Tanto che si può definire «situazione ibrida». Insomma, i ragazzi escono di casa, ogni tanto vanno a scuola. Hanno gruppi di amici. Ma il dato più significativo riguarda l’abuso di Internet. Se in Oriente interessa solo il 30% dei reclusi, in Italia ne è coinvolta la totalità degli adolescenti esaminati. Sono soprattutto i videogiochi, come Fortnite, a innescare la dipendenza, come racconta questo articolo di LucidaMente. Addirittura, poi, in Emilia-Romagna le femmine superano i maschi (182 a 164). In totale controtendenza rispetto al fenomeno nipponico. Lo si scopre in una rilevazione (che trovate qui) prodotta l’anno scorso dal Ministero dell’Istruzione e dall’Ufficio scolastico della Regione. Che contiene, oltre alle cifre, svariate testimonianze dirette.
Da quelle parole emerge il vuoto. Soprattutto nelle ragioni delle assenze. Qualche esempio: «Dichiara che rimane sveglio tutta la notte al computer o facendo altro. La mattina si sente stanco e assonnato […]». «Dolore al collo […]». «Gli dà fastidio la gente». In un caso, si pensa al bullismo: «In seguito si è capito fosse una scusa». C’è chi «non accetta imposizioni», chi semplicemente «non ne vuole parlare». Un po’ ritroviamo la nostra adolescenza: «Timore di effettuare le verifiche». Oppure: «Lo studente si rifiuta di frequentare la scuola». E i genitori? «La famiglia ha contattato lo psicologo della scuola e privati, neuropsichiatria Asl; il ragazzo continua a rifiutare qualsiasi tipo di intervento». Se il figlio si reclude, loro si sostituiscono.
E sorge qualche interrogativo. In effetti, sul sito del citato dipartimento giapponese, Carla Ricci non sembra comparire fra i membri accademici. Crepaldi prima crea chat di gruppo on line con minori e adulti problematici, poi le elimina motivando peraltro la sua scelta con delle buone ragioni. Produce video dai titoli particolari: Come faccio a capire se sono un hikikomori?. E sul suo sito sponsorizza a più riprese la New Start, associazione nata in Giappone allo scopo di aiutare i ragazzi reclusi. Anche Ricci la sostiene. Ma sono pratiche discusse, al cui riguardo lo stesso Saitō esprime, dal punto scientifico, forti perplessità. Beninteso, non si mette in dubbio la buona volontà di Crepaldi e Ricci e ci auguriamo che possano fornire un aiuto reale ad adolescenti e famiglie. Tuttavia, il pericolo maggiore è la Rete, che accresce ancora di più la distanza tra genitori. E gli effetti devastanti della reclusione, combinata con la trappola virtuale, possono anche coinvolgere tutta la casa. Come la vicenda orrenda di una famiglia pugliese. Senza bisogno di scomodare «gli hikikomori». Parola che è già una condanna. Ingrossare le paranoie di genitori e istituzioni fin troppo sensibili danneggia non solo i nostri ragazzi, ma tutta la nostra società. È il futuro, a crollarci sotto i piedi in quelle camerette. Finitela di proteggerli: è tempo di farli uscire.
Le immagini: ragazzo giapponese in hikikomori (Hikikomori, Hiasuki, 2004 – foto di Francesco Jodice, licenza Creative Commons); giovani giapponesi nei meravigliosi parchi di Arashiyama, presso Kyoto, in Giappone; Jean-Baptiste Camille Corot (1796-1875), Solitudine. Ricordo di Vigen, Limousin (olio su tela, 1866, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza).
Federico Tanaglia
(LucidaMente, anno XIV, n. 163, luglio 2019)