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Home VECCHI ARTICOLI ATTACCO FRONTALE

“God bless you”, “In God we trust”

Dalla redazione by Dalla redazione
2 Marzo 2010
in ATTACCO FRONTALE
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«God bless you, God bless the United States of America». A chi non suonano familiari queste parole? Sia che a pronunciarle fosse un presidente statunitense al Campidoglio; o Martin Luther King nel 1963 di fronte alla folla del Lincoln Memorial; o il plurimilionario Rick Warren, pastore della megachurch Saddleback, in California; o più semplicemente la pop-star Beyoncé dal podio dei Grammy Awards. Ciò che è chiaro è che gli Usa sembrano proprio essere riconoscenti a questo “Mr. God”, più semplicemente “Dio”.
Non “uno e trino” come vuole la Chiesa cattolica, ma “uno e plurale”, così come plurali sono le espressioni religiose e culturali del melting pot americano: un Dio severo per gli evangelici fondamentalisti, “liberatorio” per la comunità afroamericana, “psicoterapeuta” per anime alla ricerca di se stesse, o persino rock, come testimonierebbe la sempre più florida realtà dell’industria discografica cristiana in America.

Nulla negli Stati Uniti si muove senza tradursi, in un parallelo “aggiornamento” del sacro. E viceversa. È stato così nel 1730-1740 quando, sulla scorta del Primo Risveglio religioso, si impose l’idea del cristiano come seeker, alla continua ricerca di Cristo, della quale il singolo fedele è pienamente responsabile, il che finì per consolidare lo storico “individualismo” americano. È stato così nel 1800-1830, quando la cristianizzazione in via definitiva della popolazione americana rafforzò le spinte alla democrazia. È quanto accaduto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, a fronte del dirompente evoluzionismo darwiniano, quando il cristianesimo protestante si divise fra la corrente liberal, moderna e modernizzante, e quella fondamentalista, intransigente e tradizionalista. Infine, è ciò che è avvenuto e tuttora è in corso dagli anni Sessanta. Da una parte, sulla scia dell’inno giovanile all’autenticità, la religione ha reinventato se stessa in termini più intimi e personali, senza che ciò si traducesse in privatizzazione della fede. Dall’altra parte, puntando ad acquisire una base di legittimazione più ampia, il laico neoconservatorismo ha trascinato i silenziosi fondamentalisti, separati da mezzo secolo dalla sfera mondana, nell’arena politica, per evitare che gli Usa fossero trascinati dalla rivoluzione culturale nel “baratro del relativismo”. La religione ha continuato così a rappresentare un attore pubblico di primo rilievo.

Veniamo così a tempi più recenti. La religione conta e… ad alte sfere . Bush junior è uno dei tanti yankee che si definisce “born again in Christ”, rinato in Cristo, e uno di quel 55% della popolazione degli Usa che crede che la Bibbia sia vera parola per parola. Lo stesso 55% dei cittadini statunitensi appartiene a tutta una serie di iniziative nate a fini religiosi e capaci di trasformarsi in efficaci organizzazioni di lobbying a tutto campo. In politica interna, tanto per citare un esempio, uno dei nodi più critici nell’uniformare le proposte di riforma sanitaria approvate alla Camera dei rappresentanti e al Senato rimane l’aborto, su cui i gruppi conservatori, coadiuvati sul versante economico e organizzativo dalla miriade di gruppi religiosi pro-life, non intendono transigere. Per non parlare della politica estera: membri di organizzazioni religiose percorrono oggi i corridoi del Palazzo di vetro a New York, e numerose e influenti sono le attività missionarie statunitensi in Africa. Si pensi all’Uganda e alla recente proposta di legge presentata al Parlamento, che prevede l’ergastolo per i gay e persino la pena capitale se sieropositivi: padre dell’iniziativa è David Bahati, membro di spicco di The Family, gruppo religioso e politico statunitense, assurto a notorietà già nei mesi scorsi, quando un giornalista ne ha denunciato il carattere segreto e le posizioni estreme.

Mettendo da parte gli estremismi, la religione si fa valere anche a livello più soft. Nel decidere dove affrontare il loro primo faccia a faccia in pubblico, McCain e Obama non hanno scelto un salotto televisivo, e un giornalista come mediatore. Si sono incontrati nella Saddleback di Lake Forest, megachurch californiana, e a far da mediatore è stato Rick Warren, pastore evangelico riconosciuto dal Newsweek come uno dei 15 leader che “hanno fatto grande l’America”. E’ significativo che i due candidati abbiano deciso di confrontarsi in una chiesa, luogo che mediamente negli Usa è assai più frequentato che nella vecchia Europa, uno spazio costituzionalmente “separato” dalle sedi politiche istituzionali, ma al tempo stesso riconosciuto come parte del tessuto culturale e civile del Paese, al punto da proporsi come sede di un decisivo evento politico. È significativo anche che non si trattasse di una chiesa qualunque, ma di una megachurch slegata da una particolare appartenenza evangelica, che si rivolge a un enorme bacino di utenza. Sono i fedeli del Nuovo millennio, baby boomer contrari a forme rigide e restrittive di fede, cui viene proposto un ampio ventaglio di possibilità per esprimere il loro legame con “l’amico Gesù”: pregando in solitudine o in gruppo, cantando gospel o rock, recitando e comprando. A essere offerto non è altro che un supermercato della spiritualità: si esprime il proprio legame con Dio acquistando veri e propri prodotti “religiosi”, che meglio si ritiene rispondere alle proprie esigenze e gusti. Sono quindi due le logiche che governano questo tipo di spiritualità: quella di Dio e quella del profitto. Per essere riconosciuto dal Time come uno dei 25 uomini più influenti degli Stati Uniti e delle 100 personalità più in vista nel mondo intero, significa che Warren, pastore di Saddleback, oltre a essere carismatico, è anche un abile uomo d’affari.

Cos’è che rende la religione così importante nella società statunitense? La forza del cristianesimo negli Usa risiede nel suo carattere culture specific. Intimamente legato alle dinamiche culturali del Paese, è un cristianesimo fondamentalmente bottom-up, in cui l’autorità di Dio non si cala dall’alto di un sistema gerarchizzato ai fedeli, ma nasce dai fedeli stessi, si adegua alle loro esigenze, e, più che opporsi o rimanere separato dalla sfera mondana, si appropria dei suoi strumenti, la santifica, conferendole un tono cristiano. E’ un cristianesimo che, data la sua base legittimante, la società, non può che adattarsi a essa per sopravvivere. In un mondo globalizzato, non si gira più il mondo ad annunciare la “Buona novella” alle grandi folle, ma si scrivono libri di eccezionale successo, si gestiscono chiese elettroniche, e programmi di formazione per pastori e sacerdoti che hanno un obiettivo: vendere e conquistare fedeli. Pare ci riescano: si calcola che almeno 400 mila persone in oltre 160 paesi abbiano seguito i corsi di Warren, ispirati all’idea che una chiesa debba essere guidata senza mai perdere di vista “i buoni propositi”. Non c’è dunque da stupirsi se oggi le public opinion polls mostrano che il 90% degli statunitensi dichiara di credere in un Dio personale e creatore, l’82% ai miracoli, il 78% agli angeli, e il 55% al carattere inerrante della Bibbia, e ciò a fronte della continua crescita di buddisti, sick e musulmani.

Se a ciò aggiungiamo che non solo il cristianesimo protestante, ma anche quello cattolico e l’ebraismo hanno mostrato particolare permeabilità ai processi modernizzanti, il gioco è fatto. Come già accadeva negli anni Cinquanta, le tre tradizioni religiose hanno conservato ben poco del loro sistema rituale originario: seppur in maniera differente, esse sono sempre più concepite in termini spiritualistici ed esistenziali, più che istituzionali; tutte competono nel mercato della religione; tutte si sono appropriate degli strumenti che la modernità mette loro a disposizione. Che si possa parlare di un’americanizzazione della religione? Probabilmente sì. Il modello dell’American Way of Life, seppur strattonato dalla rivoluzione culturale, è tutt’altro che un ricordo.

Da Washington a Obama, tutti i presidenti americani hanno espresso un orientamento religioso. È vero, il paradigma del Wasp (White Anglo Saxon Protestant) è ormai passato: ieri Kennedy era cattolico; oggi alla Presidenza c’è un afroamericano. È altrettanto vero che la Guerra Fredda è finita, per cui essere religiosi non significa più opporsi al modello ateo sovietico. Un fatto però è certo: si può essere non praticanti o non fare dell’appeal religioso una strategia elettorale, ma è impensabile che negli Usa prima o poi un candidato ateo riesca a vincere le elezioni. La religione, qualunque essa sia, continua a rappresentare un importante fattore identificativo, una caratteristica cruciale dell’essere cittadini statunitensi. È scritto nel loro Dna e in fondo è il loro motto nazionale dal 1956: “In God we trust”.

L’immagine: Mayflower in Plymouth Harbor (dipinto, 1882, Pilgrim Hall Museum, Plymouth, Massachusetts) di William Formby Halsall (1841-1919). Il quadro ricorda il viaggio dei Padri Pellegrini che nel 1620 iniziarono la colonizzazione del Massachussets.

Paolo Vallonchini

(LucidaMente, anno V, n. 54, giugno 2010)

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Tags: afroamericanacaliforniaChiesacittadinicristodiofedefondamentalistiindustria discograficaintransigentelaicoliberalrelativismoreligionesenatostati uniti d'america
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