Un’analisi del conflitto in corso in Medio Oriente basata sul concetto di “potenza”: le differenze tra i contendenti ci sono. Eccome
Il Medio Oriente precipita nella violenza, nella guerra, nel terrorismo. E puntualmente la galassia dell’informazione evidenzia e porta all’attenzione pubblica quelle prese di posizione e quelle dichiarazioni che, più di altre, spingono alla polarizzazione dei consensi e delle opinioni sugli schieramenti in campo. Quasi sempre si tratta dell’eterno ritorno di argomenti, quand’anche condivisibili, fatti valere al netto di fattori che dovrebbero imporre più prudenza ai giudizi.
Si consideri il conflitto nella Striscia di Gaza: i morti civili sul versante palestinese sono ciò che instilla in molti un enorme odio verso Israele. Ma come non considerare anche quelle centinaia e centinaia di razzi che, lanciati dall’altro versante – fin da molto prima dell’ultima crisi –, avrebbero potenzialmente potuto provocare migliaia di morti israeliani? Il fatto che quelle vittime siano sono potenziali – o meglio, la maggioranza di esse – fa sì che l’indignazione morale non si scateni a loro difesa. Ma quei morti non sono tali in forza di almeno due fattori: il livello di avanzamento tecnologico-militare raggiunto da Israele – che possiamo sbrigativamente definire “potenza” – e la volontà di utilizzare questa anche e soprattutto a difesa del proprio territorio e della propria popolazione. Hamas non possiede né l’una (trovandosi così in posizione di svantaggio, pur riuscendo a offendere nonché a silenziare e sovrastare l’entità statuale palestinese) né l’altra (quel poco che Hamas mette in piedi, come i tunnel, è off limits per i non combattenti).
Succede così che la potenza di Israele sia grande abbastanza da nascondere agli occhi di molti la parte migliore del proprio operato e la parte peggiore di quello di Hamas: più i sistemi di difesa israeliani funzionano, meno si fanno evidenti le sofferenze della relativa popolazione e la mortalità dei terroristi. Pertanto si alimentano indirettamente le indignazioni a senso unico, cieche di fronte al fatto che la protezione degli israeliani è assicurata e voluta tanto quanto la non-protezione dei palestinesi da parte di coloro i quali, in tempi di pace relativa, meno vengono accusati per le loro malefatte.
Ma cosa accadrebbe se quella potenza fosse in dote ad Hamas, all’Isis, o a qualunque altra formazione dell’integralismo islamico armato? Dovremmo aspettarci da parte loro più cura e più protezione dei civili, più tolleranza, più apertura al dialogo e meno terrorismo, o, al contrario, il semplice e lineare incremento della loro capacità di offendere? Non è difficile notare come – a prescindere dalla presenza o meno della guerra – Paesi sotto l’egida dell’Islam radicale amministrino abitualmente la vita dei loro stessi cittadini con la spada; non sarebbe certamente azzardato propendere quindi per la seconda ipotesi. Si dirà che sono congetture, semplificazioni, miopie; ma almeno non quanto quelle che intendono comprendere o addirittura giustificare le barbarie addossandone la colpa all’interventismo dell’Occidente, come se non fosse possibile risalire a piacimento la china della storia – zeppa di scontri tra civiltà – fino alla pretesa dimostrazione dell’esatto contrario (posto che, indubitabilmente, l’11 settembre precede ogni guerra preventiva al terrorismo islamico).
I conflitti in cui vi è oggi presenza occidentale assumono una forma più lontana da quella tradizionale. Questo fa gridare alla vigliaccheria gli affezionati al “purismo” dei guerriglieri, dato che il militare tecnologizzato cerca di colpire da lontano. Ciò è permesso dalla potenza, ma è anche frutto della crescente allergia alla violenza indiscriminata. Al contrario una falsa veste di coraggio pare avvolgere i terroristi in questione; tuttavia essa nasce molto probabilmente dall’abitudine e dalla confidenza con il sangue che da loro viene fatto sgorgare a ogni piè sospinto, poco importa se di prigionieri stranieri o di loro affini senza colpe ragionevoli. Non c’è appello al dialogo o scusante di sorta capace di occultarlo, se non ignorando quantomeno il legame tra la potenza e le attitudini della civiltà di cui essa è espressione.
Christian Corsi
(LucidaMente, anno IX, n. 105, settembre 2014)
Illustri Signori,
lo Stato di Israele nasce sulla pulizia etnica del 1948, messa in esecuzione dopo una lunga preparazione…
Tutto il resto è chiacchiera, di cui si può essere stanchi…
Se scopo della “chiacchiera” è quello di modificare il fermo giudizio etico, di condanna, verso uno stato, quello di Israele, che più “criminale” non avrebbe potuto essere, per quanto mi riguarda è fatica sprecata… Ma credo sia controproducente anche verso quelli che pur non sapendo, sono liberi e terzi…
Quanto ai concetti di “terrorismo”, “fondamentalismo” e simili credo che si tratti di mere costruzioni ideologiche per meglio continuare quella “pulizia etnica” di cui parlavo…
Saluti
Gentilissimo lettore, grazie per averci scritto.
I giudizi troppo netti non tengono mai conto della complessità della questione. Ognuno parte dalla fase storica che più fa comodo.
Mi sbaglio o, tra inizio Novecento e 1948, gli arabi (non ancora noti come “palestinesi”) residenti sul territorio in questione vendettero ai coloni israeliani buona parte delle loro terre (incolte e trascurate) a prezzi altissimi?
E terrorismo, fondamentalismo, jihadismo sono solo “mere costruzioni ideologiche”? Lo vada a raccontare alle loro vittime…
Sicuro che Israele – la cui politica certo non può essere esente da critiche – sia lo stato più “criminale”?
In ogni caso, l’articolo del nostro collaboratore intendeva soltanto spiegare alcuni pregiudizi che si innescano a causa dei meccanismi del conflitto.
Cordialmente.
Il direttore della rivista