L’impotenza e l’onnipotenza nel rapporto educativo verso bambini, ragazzi e adolescenti secondo lo psicoterapeuta Roberto Benini
I figli non sono di proprietà dei genitori ma della vita, e alla vita devono essere educati. Questo il principio fondamentale alla base della tematica Il rapporto genitori/figli: impotenza ed onnipotenza. Ad approfondirla – nell’ambito del progetto Osservatorio permanente sui comportamenti degli alunni – Roberto Benini, psicoterapeuta e docente presso la Scuola di specializzazione in Psicoterapia Cisspat di Padova.
Contrariamente a quanto si crede, un figlio viene al mondo tre volte: alla nascita biologica (conseguente al parto) si associano quella psicologica (acquisizione di una chiara rappresentazione di sé) e quella sociale (ingresso nella comunità). A seconda dell’età, quindi, si formano appunto tre differenti menti: biologica, psicologica e sociale. In generale, le prime due nascite richiedono ai genitori uno sforzo maggiore. Gli errori che essi commettono – seppur inconsapevolmente – sono legati alle condizioni mentali dell’onnipotenza e dell’impotenza. L’onnipotenza è la fiducia esaltata, spesso arbitraria, nelle proprie capacità e può essere depressiva (tutto ciò che di brutto accade in famiglia è colpa dei genitori), narcisistica (ciò che si ritiene giusto per la prole lo è in generale per tutti) o delirante (posso fare di mio figlio ciò che voglio). L’impotenza – la condizione di non poter fare una determinata cosa – può invece essere vittimistica (nessuno può aiutare i miei figli come io vorrei), narcisistica (mi devo far insegnare da qualcun altro come ci si comporta) o delirante (ho un effetto negativo sui miei ragazzi). I complessi genitoriali sono molteplici e variano a seconda del vissuto di madre e padre all’interno della famiglia di origine e dell’età biologica dei figli.
Con quello infantile – “complesso di Medea” – si colpiscono i bisogni biologici e di cura del corpo dei piccoli. I genitori iperprestazionali impongono, anche ai neonati, alimentazione e orari rigidi non conformi ai loro ritmi; i genitori “frigorifero” sfuggono al contatto fisico indispensabile al bebè per paura di viziarlo; i genitori irresponsabili non prestano le precauzioni minime per evitargli il pericolo; i genitori irascibili hanno reazioni esageratamente violente, non sopportando quelle naturali dei figli, come il pianto. La costruzione della mente psicologica, che inizia verso il primo anno e continua fino ai 5-6, porta a incontrare altri complessi, ora specifici per la mamma e per il papà. Le madri carenziate – avendo carenze affettive – ritardano il distacco dal figlio; le madri invasive parlano al suo posto o lo costringono a rispondere secondo la propria volontà; le madri non autonome si disperano all’idea dell’allontanamento, mentre le madri dipendenti percepiscono un disconoscimento emotivo se i piccoli si legano ad altri parenti.
I padri autoritari impongono ferree regole di comportamento; i padri anaffettivi sono incapaci di esprimere gesti di tenerezza; i padri violenti colpiscono senza preavviso, costringendo i figli a restare in allerta; i padri ipercritici, narcisisti feriti nell’orgoglio, li giudicano costantemente. Nella terza fase, quella dell’entrata in società (5-6/10-11 anni), incontriamo i genitori che soffrono del “complesso di Edipo”, che si evidenzia con forti difficoltà nel momento del distacco. Le madri ansiose trasmettono le proprie angosce alla prole; i padri infantili giocano con loro anziché educarli; le madri ipercontrollanti chiedono continuamente ai figli come si sentono, mentre i padri onnipresenti invadono i lorospazi sociali. Le madri immature si dimostrano apatiche; i padri inesistenti mantengono economicamente la famiglia, disinteressandosi dell’educazione dei figli; le madri emarginate, sole, li costringono a restare insieme; i padri autocentrati, infine, dirigono la prole verso scelte consone ai propri interessi.
Rispetto alle modificazioni preadolescenziali del corpo, dovute alla tempesta ormonale (10-11/13-14 anni), i genitori possono cadere nel “complesso di Pollicina”, non permettendo ai giovani di crescere secondo le tappe dell’età. Le madri “balie” si riconoscono nel solo ruolo di nutrici e non sopportano che i figli divengano autonomi nell’igiene e nell’alimentazione; le madri “matrigne” percepiscono lo sviluppo fisico delle loro ragazze con antagonismo; i padri idealizzanti non accettano che i maschi prendano il loro posto in famiglia; le madri asessuate e i padri ambigui rifiutano il contatto fisico con il partner davanti alla prole; le madri ambivalenti e i padri imbarazzati percepiscono invece desideri verso i figli di sesso opposto e non li tollerano.
Con il “complesso di Cenerentola” (13-14/16-17 anni) i genitori rischiano di privare gli adolescenti della propria identità. Le madri vincolanti impediscono la rottura del legame psicologico con i figli; le madri “sorellastre” sono troppo prese dai propri problemi e cercano complicità; le madri invadenti compiono scelte al loro posto; le madri servitrici, poi, si pongono ossessivamente al servizio degli adolescenti. Per contro, i padri“ patriarchi” vivono le diverse scelte politiche e di vita dei giovani come affronto personale; i padri premurosi li mantengono in condizioni di immaturità psicologica; i padri “fratellastri” preferiscono essere compagni di gioco dei loro figli, anziché formarli; i padri inconsistenti li colpevolizzano per i loro problemi, fuggendo dal ruolo di papà. Durante la formazione della mente sociale dell’adolescente (16-17/20 anni) i genitori possono cadere nel “complesso di Raperonzolo”. Le madri“ senza di me come faresti” e i padri“ io so tutto” sono un pericolo per la futura coppia figlio/nuora o figlia/genero; le madri “vittime” e i padri “a rimorchio” sono totalmente incapaci di arrangiarsi; le madri “fantasma”sidisinteressano dei discendenti dopo averli cresciuti; le madri “compagne” si inseriscono invece nel loro ambiente sociale; infine i padri-figli chiedono ai giovani un’inversione di ruolo.
Qualunque sia la loro personalità, i genitori dovrebbero sempre applicare il “decalogo della buona educazione” valido per bambini, preadolescenti e adolescenti: 1) far comprendere al figlio che l’educazione è personale – ossia relativa a quella determinata famiglia – e non generale; 2) rispettare i tempi richiesti dalla progressiva maturazione fisica e cognitiva del bambino, che non è un adulto in miniatura; 3) esortare i piccoli a esprimere le proprie emozioni senza giudicarli né colpevolizzarli; 4) non litigare davanti ai figli e deresponsabilizzarli nel caso in cui il motivo della discordia li riguardi; 5) non denigrare insegnanti o educatori in loro presenza; 6) ricordare che la televisione è un elettrodomestico e non un sostituto genitoriale; 7) rendere le punizioni adeguate alla disobbedienza commessa e soprattutto mantenerle fino in fondo; 8) essere consapevoli che nessun oggetto materiale può sostituire un gesto di affetto; 9) coltivare i talenti dei figli soprattutto nel momento di scelte importanti, come la scuola superiore da frequentare; 10) ritornare talvolta, con il pensiero, a quando si aveva la loro età e immaginare come si sarebbe reagito al loro posto.
Emanuela Susmel
(LucidaMente, anno X, n. 113, maggio 2015)