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Home MONDO E GLOBALIZZAZIONE

I kurdi in Turchia, un popolo privato dei diritti civili

Francesco Fravolini by Francesco Fravolini
25 Settembre 2011
in MONDO E GLOBALIZZAZIONE, SOTTO I RIFLETTORI
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La loro situazione nella testimonianza di Nelly Bocchi, volontaria al Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale di Parma

Difficile situazione quella nella quale versa il popolo kurdo in Turchia, dove quotidianamente sono calpestati i suoi elementari diritti civili. È preoccupante la condizione sociale vissuta da tutta la popolazione, soprattutto dai bambini, costretti a vivere senza alcuna speranza per il futuro, con un’infanzia troppo problematica.  Eppure essa dovrebbe costituire il momento della vita durante il quale l’attenzione maggiore andrebbe rivolta alla scolarizzazione e all’aspetto puramente ludico. La Turchia sembra essere sul piede di guerra. L’Iran e la Turchia si sono accordati per un’azione congiunta contro il movimento della guerriglia kurda. E questa operazione è stata approvata (se non direttamente supportata), dal Governo regionale kurdo. La Turchia e l’Iran, per lanciare queste operazioni, devono avere avuto l’approvazione degli Stati Uniti.

Dopo il recente viaggio della delegazione italiana nel Kurdistan turco tra Van, Hakkari, Yuksekova e Diyarbakir, chiediamo a Nelly Bocchi, volontaria presso il Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale di Parma, di tratteggiare il contesto sociale dello Stato visto con i suoi occhi, vissuto mediante gli incontri con le persone del luogo, ascoltandone con grande attenzione le drammatiche storie.

Qual è la situazione dei diritti civili del popolo curdo?

«Tutte le bambine e i bambini delle elementari in Turchia, ogni giorno, devono recitare, all’inizio delle lezioni, questa frase: “Sono turco, onesto e gran lavoratore. Io sono turco, io sono retto, sto lavorando duro, il mio principio è di difendere i minori e di rispettare gli anziani, di amare il mio Paese e la mia nazione, molto più di me stesso, la mia legge, di crescere e di andare avanti. O supremo Ataturk, creatore del nostro quotidiano, giuro che camminerò ininterrottamente sulla via che hai aperto, sull’obiettivo che hai definito e sugli ideali che hai fondato. Lascia che la mia esistenza sia subordinata all’esistenza turca. Felice è colui che può chiamarsi turco”. Al di là dei quattromila villaggi kurdi distrutti negli anni Novanta, dei milioni di sfollati che sovrappopolano le città kurde e turche, delle migliaia di detenuti politici, delle centinaia di sindaci e attivisti dei diritti umani in carcere solo per aver parlato in kurdo, del ritrovamento di fosse comuni, questa “litania”, che anche i bambini kurdi sono costretti a dire a memoria e a ripetere quotidianamente, è la prima e più significativa violazione dei diritti di un popolo, i kurdi, costretti, loro malgrado, fin dai primi anni di vita a dirsi turchi, cioè come coloro che impunemente li hanno massacrati e continuano a farlo. Tutte le violazioni dei diritti umani di questo popolo fiero, senza una patria, derivano da questo: la “panturchizzazione”, inserita nella costituzione e fondamento dello Stato. A questa nazionalizzazione spinta all’estremo si aggiunge il grande potere che hanno i militari, i quali detengono, oltre al controllo dell’esercito, anche il potere esecutivo (per la Costituzione del 1982, inseguito all’ultimo golpe, un consiglio di cinque persone, due civili e tre militari, ha l’ultima parola su tutto ciò che concerne la sicurezza dello Stato) e quello economico, perché si sono costituiti in una lobby dal nome “Oyak” che possiede imprese e banche, senza pagare le tasse. È evidente che chi rivendica la propria lingua, le proprie tradizioni, la propria cultura e tutto ciò che rende i kurdi un popolo, non trova posto in Turchia. Chi non diventa “turco di montagna”, come i turchi chiamano i kurdi, è emarginato e considerato separatista, con tutti i problemi conseguenti».

Nel Paese manca la libertà d’espressione: quali i limiti nella crescita della società?

«Esprimersi pubblicamente in lingua kurda rimane vietato (anche se attualmente il governo centrale sta permettendo, per qualche ora al giorno e supervisionando i programmi, un canale televisivo kurdo in Turchia), tanto che molti sindaci, ora in carcere, sono stati accusati di separatismo solo per aver stampato dei dépliants che illustravano i servizi offerti dalla municipalità ai propri cittadini, in tre lingue: turco, kurdo e inglese. Uno dei pochi quotidiani scritti in kurdo, Azadya W elat, è stato costretto a chiudere tante volte e la redazione è finita tutta in carcere. La lingua kurda è diversa dal turco, che è una lingua moderna e, sostengo, inventata. Il kurdo ha radici lontane nel tempo, è simile al fārsì che si parla in Iran e ha cinque lettere che mancano nel turco, una e la più importante è la “W” (lettera proibita). Il kurdo è la lingua parlata soprattutto dai ceti più poveri e si arriva a dei paradossi: se una persona è ricoverata all’ospedale e un suo congiunto chiede al medico informazioni sulla salute del ricoverato, è costretto a chiedere notizie in turco, altrimenti il medico non risponde. Stessa situazione per le visite o le telefonate ai detenuti. Attualmente si sta svolgendo un maxi-processo contro sindaci e attivisti per i diritti umani; gli imputati e i loro avvocati difensori hanno scelto di parlare in kurdo (anche per portare a conoscenza di tutti questa assurdità), ma i giudici hanno chiamato un’interprete, mentre gli avvocati sono stati denunciati. La lingua è per un popolo (i kurdi rappresentano numericamente 1/3 della popolazione complessiva della Turchia) l’espressione più naturale per mantenere viva la propria identità e la propria cultura. Esistono gruppi e associazioni, soprattutto di studenti che, rischiando galera e tortura, mantengono viva la propria lingua, raccogliendo le storie, i miti, le leggende, tutta cultura locale tramandata oralmente dalle persone anziane. Stessa operazione culturale per la musica e le danze, grazie all’impegno di Mkm, il centro culturale della Mesopotamia».

È troppo pressante la propaganda di chi si oppone con le armi?

«È la questione del Pkk. Il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Partîya karkerén Kurdîstan, spesso citato appunto con l’acronimo Pkk) è nato negli anni ’80 e ha cominciato ad agire a metà di quegli anni contro la repressione turca, che consisteva in villaggi distrutti, sparizioni, detenzioni arbitrarie. Proprio nel contesto sociale di una così grande violenza, difendersi è legittimo. Il “merito” dei fondatori del Pkk, Abdullah Öcalan in primis, è stato quello di riunire in un unico esercito tutti coloro che si ribellavano separatamente, raccogliendo e organizzando il movimento partigiano. Non li definisco terroristi, perché non lo sono, ma ho visto e conosciuto tanti giovani che hanno scelto di andare in montagna, perché il lavoro non riescono a trovarlo, a scuola sono emarginati; resta la scelta tra scappare in Europa o unirsi al Pkk. Quelli che sono stati già in carcere (sono molti) anche da liberi non hanno più la tessera verde, la quale garantisce la possibilità di essere curati gratis o a poco prezzo e permette di accedere alla scuola secondaria o all’università. Dove possono andare? Credo che il Pkk sia stato messo in quella famosa lista di “terroristi” per ragioni meramente politiche, ma anche per blandire la Turchia, ultimo sicuro avamposto della Nato in Medioriente. Conosciamo tutti le vicende di Öcalan. Quello che posso aggiungere, oltre a denunciare il trattamento disumano e degradante che subisce nel carcere di Imrali, è che per tutti i kurdi è un simbolo. Non a caso lo chiamano “Apo”, cioè zio».

Che cosa caratterizza l’identità del popolo curdo?

«La lingua, i colori della loro bandiera: giallo, rosso e verde; anche questi sono assolutamente vietati».

Quali azioni devono essere intraprese con urgenza?

«Sarebbe essenziale la conoscenza di ciò che accade, anche stando comodamente seduti a casa propria, attraverso Internet e, perché no, andare sul posto, ad esempio al Newroz, il giorno della liberazione, che nel tempo si è trasformato nella festa dell’orgoglio e dell’identità, l’occasione per milioni di persone di gridare le richieste di pace, democrazia, diritti e libertà. Per recarsi in quei posti sono sufficienti pochi soldi, poco tempo per capire un popolo e una terra dove, tra l’altro, sono ben presenti le nostre radici storiche. L’altra azione da intraprendere è quella di chiedere ai kurdi rifugiati in Italia notizie della loro terra, mentre chi è iscritto a partiti, sindacati o movimenti culturali, può parlarne al proprio interno, supportando i pochi e piccoli progetti che si stanno realizzando con fatica».

Le immagini: cartina di un ipotetico stato del Kurdistan e Nelly Bocchi.

Francesco Fravolini

(LucidaMente, anno VI, n. 70, ottobre 2011)

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Tags: bambinicarcerefocusimralikurdimammamediorientenelly bocchinewroznotiziepartitipkkpopolorifugiatisindacatisolditerraTurchiaturco
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