La ricostruzione dei ricordi avviene mediante schemi di cognizione e meccanismi di elaborazione dei dati di cui, a causa di errori interpretativi, non possiamo fidarci
Recentemente è stato pubblicato su Science uno studio condotto dal premio Nobel per la medicina Susumu Tonegawa e da un gruppo di ricercatori del Riken-Mit Center di Cambridge sui falsi ricordi impiantati in alcuni ratti, dal quale si evince che la memoria funziona in modo ricostruttivo e non di rado si può essere vittima di errori di interpretazione (cfr. Aa. Vv., Identification of a colonial chordate histocompatibility gene, in www.sciencemag.org).
I ricordi sono immagazzinati in gruppi di neuroni dell’ippocampo che ne conservano i differenti frammenti, ricomposti, poi, dal cervello quando vengono richiamati alla mente. Tuttavia, l’atto stesso di rievocare i ricordi, con la riproposizione dei segni, rischia di esporli a influssi esterni e di distorcerli. Gli input che arrivano nell’ippocampo dall’esterno vengono decodificati attraverso scariche elettriche e raggiungono i neuroni della corteccia cerebrale. L’ippocampo è localizzato nella zona mediale del lobo temporale ed è inserito nel sistema limbico: esso svolge un ruolo importante nella memoria a lungo termine e nella navigazione spaziale. Gli esseri umani e gli altri mammiferi (compresi, quindi, i ratti) possiedono due ippocampi, uno in ogni emisfero del cervello.
La proiezione del mondo esterno non viene rappresentata come in una fotografia o in un filmato: il mondo percepito viene scomposto in una miriade di segnali elettrici, distribuiti in gruppi di neuroni sparsi sulla corteccia cerebrale. L’ippocampo è la struttura nervosa essenziale per elaborare i dati informativi che costituiranno dei segni, più o meno duraturi, in altre parti del cervello. La nostra memoria non ricostruisce un evento nella sua forma originale e nemmeno in una versione“attenuata”. La ricostruzione avviene attraverso schemi di cognizione: quanto (e come) riusciamo a ricordare è il risultato di un escamotage della nostra mente che si muove mediante omissioni, abbreviazioni, tagli, aggiunte arbitrarie, elaborazioni e distorsioni. La fase di inserimento nella memoria a lungo termine è un’elaborazione già distorta dei dati inseriti e la rievocazione, dunque, si presenta come un riadattamento di dati già programmati. Quando evochiamo un ricordo e lo andiamo a riproporre, eseguiamo, in realtà, una rielaborazione e decodifica: a ogni passaggio ricordiamo meglio, ma possono senz’altro aumentare le distorsioni mnestiche e le imperfezioni.
Studi ed esperimenti condotti dalla psicologa Elisabeth Loftus, professore aggiunto di Legge all’Università di Washington e presidente dell’American psychological foundation, mostrano come sia possibile indurre falsi ricordi attraverso varie tecniche persuasive, come l’induzione attraverso il suggerimento volto a far immaginare eventi mai accaduti (cfr. Elisabeth Loftus, Creating false memories, in www.cynthia-biddle.com). Questo può anche accadere se uno psicologo spinge il paziente a immaginare degli eventi mai successi per rievocare episodi reali dimenticati o rimossi: ecco che il paziente può mescolare e confondere gli eventi, fino a credere che quelli immaginati siano reali come quelli vissuti. Con il passare del tempo i ricordi vanno indebolendosi, mentre aumentano le distorsioni e gli interventi aggiuntivi o deprivanti della memoria.
Un evento immaginato con grande dovizia di particolari può lasciare nel cervello una traccia molto simile a quella di un avvenimento realmente accaduto. È stato dimostrato che un oggetto immaginato può inviare al cervello un segnale uguale a quello che giunge dalla visione di una figura reale, così come un evento non vissuto, ma impiantato in vario modo. La deprivazione del sonno, per esempio, può indurre la formazione di ricordi falsi o molto confusi, vaghi e incerti, e si crea, quindi, il terreno fertile per la costruzione di memorie fittizie. Il ricordo fallace può anche essere accompagnato dai biasis cognitivi, ovvero da pregiudizi sviluppati sulla base di informazioni errate e che non consentono una valutazione logica degli eventi. Molto interessanti ed esaustivi sono gli studi compiuti da Piergiorgio Strata del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino e presidente dell’Istituto nazionale di Neuroscienze (cfr. Piergiorgio Strata, Ci possiamo fidare della nostra memoria?, in www.treccani.it). I ricordi fasulli possono essere indotti anche attraverso l’ipnosi regressiva, terapia più adatta, forse, alla costruzione di memorie alterate e distorte che al recupero di eventi realmente vissuti.
Nella pratica psicanalitica l’ipnosi non ha nulla a che vedere con le sceneggiature dei signori di Hollywood e con la regressione come macchina della verità. Vi sono, anzi, numerose evidenze sperimentali che provano il contrario: alcuni pazienti, sottoposti a trattamento ipnotico, hanno creduto di rivivere una regressione fino al momento della nascita e addirittura fino a precedenti esistenze, ricordando contatti con entità soprannaturali o extraterrestri. È importante aggiungere che, secondo lo psicologo Armando De Vincentiis, «le esperienze costruite con la regressione sembreranno reali solo se conformi con il sistema di credenze del soggetto che vi si pone» (cfr. Armando De Vincentiis, Rapimenti alieni, reincarnazione, abusi! Li scopriamo davvero con la regressione ipnotica?, in www.medicitalia.it). È possibile, quindi, impiantare nel cervello eventi mai vissuti.
Un recente studio pubblicato su Science, eseguito da un team di neuroscienziati dell’Università di Tokyo, sotto la direzione di Toshiyuki Hirabayashi, ha evidenziato che la rappresentazione cerebrale del mondo e le aree corticali che presiedono alle prime fasi della sua elaborazione sono organizzate in modo gerarchicamente più complesso di quello che si riteneva. Il cervello riconosce e ricorda gli oggetti e le strutture che osserviamo sviluppando per le loro caratteristiche rappresentazioni neuronali distinte e coordinate. Le rappresentazioni dettagliate degli oggetti, per esempio, non sono il risultato dell’accumulo di più rappresentazioni in un’unica area gerarchicamente elevata (l’“area 36”), ma si formano direttamente nella zona gerarchicamente precedente (l’“area TE”), per essere solo successivamente trasferite nel settore superiore. Più zone concorrono al meccanismo di funzionamento della memoria e più frammenti “partecipano” della fase di ricostruzione del reale. Cadere in autoinganno, quindi, è parte integrante dello stesso sistema di riproduzione degli eventi (cfr. Toshiyuki Hirabayashi – Yasushi Miyashita – Daigo Takeuchi – Keita Tamura, Microcircuits for hierachical elaboration of obiect coding across primate temporal areas, in www.sciencemag.org).
La memoria, dunque, funziona come le tessere di un mosaico: tutto sta nell’inserire nel cassetto giusto i tasselli di diverse forme e di differenti colori. Al momento del ricordo si debbono prendere le tessere corrette e ricostruire quanto è stato precedentemente ordinato nei cassetti. Non sempre si trova il cassetto giusto, per così dire, e non sempre mettiamo il mattoncino corretto nel posto di competenza. La memoria è un processo dinamico ricostruttivo che può lasciare dietro di sé qualche pezzettino del mosaico: molto dipende, per il suo funzionamento, dal modo col quale si tenta di ricombinare i vari elementi delle immagini.
Link utili: Alan Brown – Elisabeth Marsh, Simulating déjà vu in the lab, in http://bps-research-digest.blogspot.it; Marco Cappadonia Mastrolorenzi, Strategie per vivere senza paura, in www.lucidamente.com; Marco Cappadonia Mastrolorenzi, L’ossessione del sovrannaturale, in www.lucidamente.com; Sarah Hanan, Déjà Vu research pushes around memory, creates illusion of past encouter, in http://blog.smu.edu; Domenico Pasquariello, Suggestionabilità e falsi ricordi, in www.ceifan.org.
Le immagini: ricostruzione di un ricordo; foto di Elisabeth Loftus e di Piergiorgio Strata; labirinto del Comitato provinciale Unicef di Novara (realizzato dai bambini nel settembre 2013, con la collaborazione dell’artista Corrado Bonomi).
Marco Cappadonia Mastrolorenzi
(LucidaMente, anno VIII, n. 95, novembre 2013)