Se proviamo a proiettare una radiografia anche approssimata della oramai generalizzata mutazione sociale, sempre più accentuatamente in atto, si può facilmente riscontrare come siano almeno tre i suoi maggiori connotati dannosamente emergenti. Nel nostro Paese in modo anche più complessivamente marcato. Il primo connotato riguarda le caratteristiche della produzione industriale e in genere il campo merceologico, il secondo la scala dei valori vocazionali e comportamentali a livello giovanile e adesso anche adolescenziale, e il terzo il quoziente di qualità della classe politica.
E sono tutti riconducibili a un unico motore, che attiene al progresso tecnologico, il quale, ma poi non tanto paradossalmente, produce insieme anche omologante regresso culturale. Basato a sua volta su spostamenti nozionistici e psicologici dovuti al macroscopico e sempre più veloce espandersi, da fonte a destinatario (televisione) e reticolare (internet e cellulari), della comunicazione globale.
Non scopro certo niente, ma penso sia molto utile contribuire a dare a tutto ciò, e in modo allarmato, il massimo dell’evidenziazione comparativa.
Non più cittadini, ma consumatori
L’uomo ha via via smesso di fabbricare (deviando persino la produzione alimentare) unicamente le cose essenziali per se stesso. E cioè: utensili di servizio e d’uso e indumenti comuni o assecondanti funzione; opere murarie o d’altro materiale per abitare o riunirsi; mezzi di trasporto necessari ai propri spostamenti, a trazione umana, animale, meccanica; elaborazione di strumenti e prodotti atti a curare validamente la propria salute e dotazione di macchine e attrezzi-base destinati a diffondere, stampare e inoltrare anche con altre tecniche messaggi, informazione e cultura; nonché creazione e messa a disposizione di energia a scopi d’illuminazione, riscaldamento e forza motrice. Tutte attività comunque producenti non solo sicurezza e agio ma pure ricchezza e comunque lavoro e reddito.
Tuttavia, col passare del tempo, l’umanità ha sempre più largamente e incongruamente aggiunto una tipologia di merci – e sta in ciò continuando in maniera più che pletorica – di carattere inessenzialmente e talvolta inutilmente accessorio e sino alla più totale e dispersiva futilità. È venuto insomma gradualmente, per così dire, oscurandosi il concetto di “bene durevole”. E questo dacché un’auto in lamierino ha una durata potenziale infinitamente inferiore non solo a quella d’una cosiddetta d’epoca, in metallo pesante, ma addirittura a una carrozza lignea del Seicento. O certi look fruibili nel vestire invecchiano entro un paio di stagioni e talvolta una sola. O un cellulare o altro strumento elettronico viene superato proprio in un fiat dal modello successivo. O qualsiasi elettrodomestico dev’essere sostituito a breve, in quanto ripararlo a garanzia scaduta costerebbe più che acquistarne uno nuovo.
L’unico e sopravvenuto materiale indistruttibile è la plastica, a causa della sua, assai temibile, non biodegradabilità chimica, che provoca un accumulo in qualche caso solo apparentemente minimale (come sacchetti della spesa dismessi, involucri strappati da quasi ogni oggetto o copia di magazine che compriamo, eccetera), il quale rischia di lentamente soffocarci.
È a questo punto – cioè divenuto ideologia irreversibile d’impresa, con assoluta noncuranza per l’eccedenza suicida d’inquinamento atmosferico e acquatico indotta – che ogni pezzo prodotto deve poter essere sostituito abbastanza presto per garantire un ritmo produttivo, il quale rapidamente lo avvicendi; ritmo che, se si allenta, fa crollare tutto, dall’economia all’occupazione. E dunque non acquistiamo più nulla per possederlo ma solo, in circolo vizioso, per consumarlo. E del “consumo” diventiamo succubi, cambiando perfino nome: non più cittadini ma, appunto, consumatori. Guarda un po’ che bellezza, e come siamo diventati perciò anche comportamentalmente più manovrabili!
La scarsa cultura dei giovani
Il secondo connotato rende a sua volta piuttosto buio il futuro. Le ultime generazioni stanno via via apprendendo – e quindi formandosi – avendo come fonte insegnante molto di meno la scuola (dato che anche i docenti, sempre più malpagati e precari, risultano progressivamente di inferiore preparazione, mentre i programmi allargano fin troppe lacune) e invece assai di più gli schermi televisivi e quelli connessi al web. La funzione didattica è dunque divenuta qualitativamente e organizzativamente sempre più scadente a livello medio, e anche quello universitario ha cominciato da tempo a mostrare grandi crepe. In cambio la tv, che si nutre più di spettacolo e di pubblicità che di informazione oggettiva, fornisce modelli meno seri e producenti e però più attraenti. Diplomi e lauree valgono così sempre meno e si persegue non il conseguimento di capacità stabilmente utili, bensì di ruoli caratterizzati da mera ed effimera piacevolezza pubblica.
E questo è un disastro, perché le istituzioni stesse, in luogo di dedicarsi fattualmente alla costruzione, come era e sarebbe tuttora funzionale, delle nuove classi dirigenti, comparti specialistici inclusi, incrementano invece un campo mediatico distorcente, il quale non crea più cultura ma fomenta ipnosi. Sì che oggi i giovani, che trovano lavoro – se lo trovano – in età più tarda delle generazioni precedenti, coltivano maggiormente interessi inerziali e trovano esemplarità di motivazioni soprattutto in modelli dotati di successo visual e popolarità commerciale, assolutamente privi di requisiti culturali in qualche modo fecondi e dotati di serietà. Quindi di adeguata conoscenza del passato e di sufficiente allenamento razionale.
Il che significa avviarsi a una comunità in cui la componente validamente intellettuale è sempre più esigua, poco incidente e disarmata.
La politica dei saltimbanchi
Il terzo di questi elementi fornisce a sua volta un quadro desolante fino al brivido. Quando correva il concetto del “primato della politica” non ci rendevamo probabilmente conto del pericolo cui esso stesso apriva la porta. Che questo primato – soppiantandone un altro, quello della cultura, che ossidabile, a differenza del primo, non è – potesse restar consolidato anche quando si svilisse la qualità intrinseca della politica ed essa non fosse più esercitata da statisti e rappresentanti di movimenti dotati di abito storico e di molle ideali, bensì da pressappochisti e inseguitori di status.
La modernità sociale aveva usato l’organizzazione e il confronto dei partiti come gambe per camminare, ma il postmoderno che respiriamo oggi non si nutre più di concetti basati sulla solidarietà e sull’altrui, in oggettività di analisi, bensì esclusivamente di autoreferenzialità pragmatica. E questo rende più facile lo scivolante trasferire mediaticamente peso dalla sostanza all’immagine e dai ruoli autentici a quelli recitati, rendendo la politica non più qualificante capacità d’elaborare e affermare programmi aderenti a realtà di interessi collettivi, bensì saltimbancheria incoerente in cui vince solo chi più abilmente appare ed è portatore di attrazioni plateali. Così la politica non spinge più i cittadini a dare il meglio di sé, ma seleziona istintualità più superficiali e passive.
Ed ecco allora che la classe dirigente stessa mutua linguaggi dagli spot pubblicitari, perché la platea cui si rivolge, essendo anche stilisticamente ormai diseducata, è a questi che mostra acquiescente gradimento. E così pure un programma di governo o una sua iniziativa legislativa sembrano firmati dal dottor Dulcamara come fossero uno shampoo o un sugo, anche quando nascondono interesse privato o di casta o peggio. E tanta gente che di ciò si disgusta trasforma il rigetto in rassegnazione e smette pure – la conferma di ciò è statistica – di andare a votare: calar di percentuali progressivo che è pure questo un danno non da poco.
Analizzando oggi la prevalente composizione qualitativa del Parlamento e osservando per quali vie e ragioni si può diventare ministri e sottosegretari, finisce con l’essere davvero difficile evitare sudori freddi e cader di braccia.
Agire di conseguenza
Che quadro, vero?
Ma cambierebbe se, invece di disperarci su di esso e basta, ci mettessimo anche a urlare a pieni polmoni? Non so: sono già numerose persone e categorie che da tempo urlano. Eppure ciò non basta, lo vediamo con nitidezza.
Dobbiamo, credo proprio, pensare di più, molto di più, al mondo che abiteranno i nostri nipoti.
E agire di conseguenza.
L’immagine: particolare di Ricerca 11, fotografia di Giovanni Guadagnoli (www.giovanniguadagnoli.it).
Etrio Fidora
(LucidaMente, anno V, n. 58, ottobre 2010)
Grazie mille! Ottimo materiale!