La presa di coscienza della mancanza di verità assolute ha condotto arbitrariamente alla legittimazione demagogica, populista, volgare, di qualsiasi parere o giudizio, per quanto infondato e insensato possa essere
Se tutto è relativo, tutto è passibile di diversa interpretazione. Questo è il risultato – né prevedibile, né auspicabile – dell’affermazione della libertà di pensiero, che è stata tragicamente trasformata dal populismo imperante nel diritto di ognuno ad avere la propria opinione, quasi fosse una tappa gloriosa della battaglia democratica. Nell’era in cui il sapere è a portata di un clic e le biblioteche sono stracolme di volumi consultabili da tutti, è paradossale che la conoscenza, anziché diffondersi, si sia frammentata e impoverita.
Chiunque – dalla commessa all’infermiere, dal notaio all’imprenditrice – si sente quasi in dovere di esprimere la propria idea su qualsiasi argomento di cui si parli. Sembra che non sia ammesso avere, nel proprio repertorio culturale, delle zone d’ombra nelle quali manchino i riferimenti cui ancorarsi. Come se tutti fossero all’improvviso diventati “saccentoni”, come se ogni tematica, dalle discussioni di fisica nucleare alla diatriba sulla congiunzione positiva o negativa degli astri, sia diventata appannaggio della contingenza e dell’arbitrio del singolo. Il relativismo affonda le sue radici nella sofistica greca – in particolare in Protagora – ed è stato abbracciato da taluni pensatori come il valore supremo, come il simbolo della lotta per l’affermazione della libertà.
La sua interpretazione ad usum populi o plebis fa sì che ci si senta giustificati a svincolarsi da discussioni scomode con frasi del tipo «beh, ma questa è la mia opinione», tappandosi le orecchie e voltando le spalle. Ognuno si chiude nel proprio orizzonte mentale, si sente autorizzato a non imparare, a non cercare di esplorare strade alternative. Il relativismo esasperato porta alla sterilità, al blocco della condivisione e del confronto tra posizioni diverse e alla conseguente mancanza di crescita ed evoluzione del pensiero.
In questo modo non è più necessario mettersi in gioco e avviare un’analisi critica delle proprie idee su questo o quel tema. E ciò lascia chiaramente intatta la considerazione di se stessi e il narcisismo ideologico. Si sa che è difficile ammettere di non conoscere la verità; ma, se non si parte da questa base, il bagaglio culturale che si costruisce non potrà che essere pesante e colmo di futili oggetti. Meglio una valigia piccola, maneggevole ed essenziale, piuttosto che un cumulo ingombrante e vano. Ecco perché bisogna combattere la presunzione ideologica che ognuno abbia il diritto di avere una propria opinione su tutto, senza se e senza ma. Il diritto di pensiero è sacrosanto, ma solo se fondato su motivazioni oggettive e fruibili da tutta la comunità, anziché ancorato a soggettivismi sterili. Una società può funzionare al meglio solo se gli intellettuali si occupano di cultura, gli scrittori di letteratura, gli economisti di economia, i medici della cura dei pazienti, i muratori della costruzione di case. Bisogna cioè spazzare via quella nube densa e amorfa che lascia tutto nell’indeterminatezza e nella confusione.
Non è vero che sia lecito esprimersi su ogni questione: è legittimo farlo sulle tematiche che si sono approfondite e studiate, adducendo prove concrete e tangibili a sostegno della propria argomentazione, passibili di essere confutate con antitesi basate sugli stessi presupposti. Soltanto così il sapere potrà progredire al di là delle barriere ideologiche e metafisiche. Nonostante i secoli passati, il motto socratico «so di non sapere» è più vivo e appropriato che mai.
Sulla caduta della qualità e del valore della cultura, si vedano pure, su LucidaMente: Analfabetismo high tech; Letteratura in svendita.
Chiara Toneguzzo
(LucidaMente, anno IX, n. 98, febbraio 2014)
L’articolo è encomiabile e può essere integrato con alcune osservazioni volte ad evidenziare l’eziologia di questa prassi ormai dominante.
E’ in atto, nel Primo Mondo, una precisa strategia diretta alla sua liquidazione. Essa fa perno, da un lato, sull’economia, dall’altro, sulla sociologia, infine, sulla cultura.
Sul piano economico, viene in considerazione la delocalizzazione dei capitali finanziari ed industriali, talché la produzione si sposta verso le aree in cui il costo del lavoro è significativamente minore. Il risultato ultimo, se non intervengono fatti ostativi, sarà il livellamento del Primo Mondo agli standard dei Paesi in via di sviluppo.
Quanto al profilo sociologico, assume rilievo: la libertà sessuale condotta ai suoi estremi, cui consegue anche il debosciamento della gioventù; la riduzione della donna a “vasum eiaculationis”; la conseguente dissoluzione della famiglia; la contrapposizione tra i due sessi; la eterofobia; il favore per l’immigrazione di popolazioni che non si integrano con i valori delle società che pure li ospitano, trasformando ciascuna di esse in una “nazione di nazionalità”, in un “mixing of diverse peoples”, in un insieme di “divided societies”, donde la caoticità del tutto.
Quanto al profilo culturale, vengono in considerazione: la progressiva espulsione della cultura dalla pubblica istruzione; la destinazione di quest’ultima alla sola formazione di tecnici; il pluralismo culturale, il cui valore ordinante diviene il nichilismo.
Questa autentica tragedia – che ha come antecedente l’altrettanto tragica implosione dell’impero romano in cui, infatti, è riscontrabile una analoga fenomenologia – non è casuale ma è il prodotto del sistema capitalistico della produzione, in quanto basato sulla realizzazione del massimo profitto, sulla conseguente strumentalizzazione dell’essere umano. Tale sistema è evoluto nella oligarchia, talché il potere economico e, quindi, politico, si concentra ormai nei vertici capitalistici con conseguente espropriazione della base.
La delocalizzazione è lo strumento economico, il nichilismo è lo strumento culturale di questa perversa strategia diretta a favorire l’antiumanesimo, pertanto, a devalorizzare il Primo Mondo colpevole di essere informato ad una dignità della persona umana basata sugli human rights e sul welfare state, vale a dire, su modalità contrastanti con le esigenze della massimizzazione del profitto.
I partiti politici e gli stessi sindacati, senza eccezioni, si sono adeguati di conseguenza tradendo le aspettative della base.
Il rimedio: a) compattare il dissenso in un movimento politico democraticamente alternativo; b) emarginare la Chiesa cattolica in quanto coprotagonista del capitale finanziario ed industriale, in quanto fautrice dell’assolutismo politico ed economico, come lo è già stata del sistema feudale di tragica memoria.