I “sette vizi capitali” compaiono già nell’opera di Aristotele e sono riconosciuti a livello globale e dalle culture più disparate come la parte malvagia dell’essere umano. A prescindere dalla religione, essi sono l’anti-morale umana, come se ogni persona dall’alba dei tempi nascesse con una maligna matrice originale e misteriosa che la parte migliore, la coscienza forse, combatte con le armi dell’amore, dell’uguaglianza, del rispetto ecc.
Alcune culture invece deviano e danno spazio e governo ai sette vizi. Il capitalismo, che oggi governa il mondo, lo fa da questi sette pilastri: avarizia, collera, orgoglio, ingordigia, lussuria, pigrizia, invidia.
Vediamo brevemente l’intreccio vizi capitali-capitalismo.
Avarizia: chi possiede il potere, che oggi si traduce in potere economico, non lo spartisce con nessuno, se non per alleanze stipulate solo per proprio tornaconto.
Collera: chi non rispetta le regole dettate dal potere è vittima di ritorsione, esclusione, irritazione.
Orgoglio: questo sentimento, che non è a mio avviso malvagio per sua intrinseca natura quanto per la forma perversa che ha assunto, oggi è uno scudo dietro al quale si accampano logiche imprescindibili che non permettono di ascoltare le ragioni altrui, specialmente quando le ragioni altrui hanno un reale fondamento storico e morale.
Ingordigia: per il capitalismo non è mai abbastanza ciò che ha prodotto, necessita di più e poi ancora di più, i limiti si sfondano senza la memoria dell’esperienza o di ciò che insegna il buonsenso o la natura del mondo.
Lussuria: il sistema capitalizza il corpo, osanna la materia, prostituisce le donne per il profitto economico causando contemporaneamente inaridimento morale e spirituale. Due piccioni con una fava: il ricavato monetario di una merce che si vende come il pane, e l’abbassamento della morale che permette al capitalismo d’ampliare indisturbato il raggio d’azione.
Pigrizia: il capitalismo rende pigri e accidiosi i suoi controllati grazie alla miscela di finto benessere che lascia defluire dalle sue dighe.
Invidia: oggi nessuno può permettersi di possedere senza permettersi d’essere oggetto d’invidia, ovvero divenire bersaglio di risentimento e poi d’odio. Il sistema ti sprona ad invidiare ciò che non hai facendo in modo che tu lo possa bramare così tanto da doverlo acquistare dal sistema stesso, poco importa se è estorto al suo legittimo proprietario e ai luoghi originari.
Il capitalismo è tutto questo, e deve esserlo per poter essere. Esso fallisce perché esalta nell’uomo la sua natura egoistica. A meno che si voglia rimettere in discussione per convenienza il significato di bene e male, questo è indubbiamente male.
Nel centro dell’animo umano arriva un meccanismo deviante che rende essenziale il superfluo, il consumismo, tramite la sua lancia dalla punta imbevuta in quei sette veleni capitali, la pubblicità, che altro non è che un raggiro globale che asservisce a sé stesso tutte le vittime del consumismo arruolate nella spirale apparentemente senza fine della produzione.
In nome di una produzione discutibile, quanto la natura stessa di molti dei suoi prodotti, la cui redistribuzione dei ricavati non è evidentemente proporzionale, oggi si capitalizzano anche grandezze astratte come il tempo e lo spazio, e realtà sacre come la natura e l’essere umano che oggi il capitalismo denomina risorse naturali e risorse umane, entrambe stuprate. Siamo le sue risorse. Non le nostre, le sue.
Esso inoltre produce eccedenze le quali, al saturarsi della domanda, si trasformano da oggetti dalla dubbia necessità in risorse sprecate; tende alla privatizzazione del collettivo esigendo una società fatta di primatisti prevalsi sulla massa a spese di quest’ultima: pochi, scaltri, seduti su personalissimi troni, sono inseguiti dai molti a corto di fiato in una corsa arrancante.
Il capitalismo, che crea classi sociali rinnovando in sé una matrice medievale, è stato espanso con violenza manifesta dagli Stati Uniti, provocando milioni di vittime fisiche, e con un altro metodo, più sottile e subdolo, una sorta di lavaggio del cervello che ne mostra le false virtù, causando altri milioni di vittime prima di tutto spirituali.
Nei vari continenti, guerre senza diritto d’essere (sempre che una guerra abbia diritto d’essere) hanno tentato di arginare le alternative al capitalismo proposte dalle varie sinistre, a volte filocomuniste, altre semplicemente democratiche, ma sempre etichettate come sovversive per avere il pretesto di aggredirle, quando esse venivano accolte dal popolo stesso. E allora vi sono state vittime fisiche.
Noi siamo le vittime spirituali: il progresso materiale uccide quello spirituale. È quanto affermava Martin Luther King.
I morti sono sotto i nostri occhi, gli occhi dell’Occidente, Per fare solo un esempio, tutti i morti provocati dalle industrie dell’alcool e del tabacco sono vittime tangibili del capitalismo. Poi ci sono le morti lontane, polverizzate nell’eclatante frastuono d’una guerra, nell’assordante silenzio dell’emarginazione continentale: quello che il mondo capitalista ha battezzato Terzo Mondo (come se dallo spazio si vedessero uno, due, tre, oggi addirittura quattro pianeti Terra). Considero le vittime di fame, di sete, di guerre tribali riaccese per interesse economico, derubate di una cultura incenerita negli ultimi due secoli… Basta osservare quello che abbiamo attorno: qualsiasi persona non può non vederlo se dotata d’obiettività ed intelletto.
Essi pagano il prezzo delle nostre comodità, spesso superflue, prodotte da questo sistema capitalista che esige sacrificio. (Sacrifici folli voluti anche dallo pseudocomunismo di Mao e Stalin, tanto per guardare a una storia non troppo lontana nel tempo).
Il nostro egoismo, attizzato dal sistema, spesso ci fa dimenticare (visto che tutto sommato abbiamo di che sfamare il corpo fino a ottant’anni circa; se da svegli e lucidi, o narcotizzati e infelici, è un altro discorso) che noi, che appunto abbiamo la certezza della vita fisica, non siamo la totalità umana, anzi ne siamo solo una piccola parte.
Assumendo un contorno geografico “familiare”, si sa che da Lisbona a Mosca come comunità siamo (non si può scendere nel dettaglio) tutti a un discreto livello d’agiatezza. Ma quest’area ha una superficie minore rispetto alla sola Africa Occidentale, e una popolazione, dato ben più significativo, minore di quelle sommate di Nigeria, Brasile, Repubblica democratica del Congo, Pakistan, Etiopia, Sudan. Sei Paesi, questi, confrontati coi quarantadue sommati della zona Lisbona-Mosca di cui sopra, che includono comunque Ucraina, Bielorussia, Romania, Moldavia, Albania, stati che, anche se interni a quest’area, non si possono considerare economicamente agiati.
Siamo piccoli, siamo pochi. Il mondo è uno e siamo molti: torna nella sua straziante verità il detto latino divide et impera. Sono riusciti a farci trangugiare pure la frottola dei vari mondi, di cui qualche riga sopra, nell’ottica di quel detto latino (chiaro che nessuno crede ai “tanti mondi” ma altrettanto vero è che molti se ne stanno sigillati in quello della loro mente e, allora, anche la moltitudine fisica di quei mondi che non ci sono non è che un dettaglio).
Ecco che il sistema ha inglobato tutti ma nutrito pochi con un surplus tolto dall’essenzialità di molti. E, allora, come si può dire che il capitalismo ha la risposta per una buona vita? No, non ce l’ha, è ben lungi dall’averla. Istupidisce noi e getta nella fame altri esseri umani.
Un’argomentazione-chiave. Dove sono le potenziali redistribuzioni per un mondo equo, giusto e solidale, se non bruciati in stupida benzina, in pochi giri d’una stupida pista, da una stupida auto condotta da un pilota che altri stupidi elevano ad eroe?! Era solo un esempio, trasferibile agli altri sprechi che ci fanno credere ricchi uccidendo altri.
Il capitalismo, dunque, è colpevole di truffa e omicidio.
Nel capitalismo, evidentemente, il denaro ricavato non fa che girare sempre nello stesso circolo vizioso, più voluminoso a ogni tornata per l’arricchimento dei pochi concorrenti che, oramai fatti forti dal loro stesso sistema, impuniti derubano risorse ovunque e a chiunque, se esse sono ritenute essenziali per rafforzare e impermeabilizzare quel circolo vizioso che altro non è che la loro roccaforte. Spingano sui portoni le masse là fuori!
Il capitalismo riduce al silenzio chi non è alle sue leve di comando: la maggior parte, che è rappresentata dal Sud del mondo e altri paesi poveri, è proprio privata della totalità delle forze e risulta quindi annichilita nei propri corpi scheletrici, oppure è al lumicino di quelle forze che però deve impegnare per la sopravvivenza quotidiana. E quest’ultima, a mio avviso, rappresenta comunque la parte tra le vittime del capitalismo più pericolosa per il sistema: perché qui è più facile che si sviluppi ostilità nei suoi confronti. Per questo il sistema non unisce, non si applica a (ri)-fornire troppa cultura, troppo cibo: per non mettere in piedi un’umanità che avrebbe un bel credito da presentare. Ma anche per perseverare nel nostro mantenimento, noi, la parte minore delle sue vittime, quella più servile perché attaccata alla sua flebo di narcotizzante che gli propina di che nutrirsi spacciandola per vita.
Avete notato l’andamento degli slogan pubblicitari negli ultimi anni? In esso vi è un abuso e un uso indiscriminato dei termini “Vita”, “Vivere”, “Vivi”, “Life” ecc. Non è un caso.
Il capitalismo snatura l’essere umano e ne polverizza il suo alone di magia, se così la si può chiamare: dissolve l’anima in favore del freddo acciaio.
Schiavizza le masse al suo servizio, ma in fondo, schiavizza anche le sale di comando rendendone i funzionari automi spietati e opportunisti, ancora meno esseri umani dei loro servi. Entro di sé, paradossalmente, il capitalismo non distingue più tra poveri e ricchi: i poveri sono vittime dei ricchi, i ricchi vittime del capitalismo. (È chiaro che a risultare odiosi siano gli approfittatori, vittime loro stesse oppure no). Come un uomo che uccide i fratelli per poi girarsi con il coltello ancora sporco di sangue verso il padre, per restar solo, con quel coltello tra le mani e poche vie d’uscita nella testa.
Adam Smith credeva nella libera concorrenza per assecondare il naturale egoismo umano. Magari anche in buona fede, egli credeva di far tornar utile tale peculiarità. Ritengo abbia usato troppa leggerezza nelle sue tesi: come poteva non immaginare che, cavalcando l’esaltazione dell’egoismo, la libera concorrenza non si sarebbe tradotta in libero sfruttamento?
Karl Marx sostenne a suo tempo che il capitalismo sarebbe fallito. Io credo che sia fallito già da tempo, era il suo destino inscritto nella sua natura fino dalla nascita.
Il problema è che l’essere umano persevera nel fallire assieme a lui.
L’immagine: particolare di Cristo portacroce (forse 1515-16, olio su tavola, 76,5 x 83,3, Gand, Musée des Beaux arts) di Jeroen Van Aeken, meglio noto come Hieronymus Bosch (’s-Hertogenbosch, 1450-1516).
Niccolò Bulanti
(LucidaMente, anno IV, n. 41, maggio 2009)