In esclusiva per la nostra rivista, un’anticipazione da “Un piatto di lumache”, “saggio narrativo” di Sergio Sozi
È con estremo piacere che LucidaMente pubblica in esclusiva e in anteprima, per gentile concessione dell’autore, le prime pagine di un’opera ancora inedita (Un piatto di lumache. Saggio narrativo su Italo Calvino e I nostri antenati) dello scrittore Sergio Sozi. Protagonisti del libro un naufrago, un’isola disabitata, un libro di Calvino miracolosamente trovato sulla spiaggia (Il visconte dimezzato, cui seguiranno Il barone rampante e Il cavaliere inesistente), il progetto di raccogliere in un diario le «parole che mi dico ad alta voce ogni giorno, soprattutto dopo il tramonto, sin da quando sono rinvenuto vicino ad uno scoglio, nei pressi del roccioso promontorio occidentale»…
Si intravede, così, in filigrana, il progetto di Sozi, un romanzo-saggio su Calvino e la sua opera, in una situazione tipicamente calviniana: l’uomo solo e “cogitante” su ciò che lo circonda. Il tutto espresso in un impasto linguistico propriamente soziano: ricco, ironico, scoppiettante, ornato di invenzioni lessicali e sapienti citazioni.
Sergio Sozi è nato a Roma nel 1965 e ha vissuto dal 1969 al 2000 in Umbria, quindi si è trasferito in Slovenia, dove attualmente risiede. Tra i suoi libri ricordiamo: Oggetti volanti (Frara), Il maniaco e altri racconti (Casini) e il recente Il menu (Castelvecchi).
Primo capitolo-giorno
Molto probabilmente sono ormai due i mesi e tre i giorni che ho trascorso in questo posto illibato e paradisiaco dell’Oceano Pacifico: così almeno segnalerebbe il calendario, grazie al quale ho cercato di dare una parvenza di normalità al mio soggiorno tanto obbligato quanto piacevole.
Per il resto, rimango immerso in una vasta congerie di supposizioni: come si chiama l’isola? Tre sono le possibilità verosimili: Azimut, Fidelia o Verdiana.
Perché essa non è popolata da uomini pur essendo grandicella, abitabile, verdeggiante, nonché dotata di varia fauna ed acqua dolce? Non saprei: magari, adesso che siamo all’inizio di settembre il tempo è magnifico, come sempre lo è stato sin dal tre luglio, ma forse verso l’autunno si scatenerà qualche uragano pauroso o una serie di terremoti (eventi che, se abituali, ovviamente respingono gli insediamenti). Stai a vedere che ad ottobre l’alta marea la sommergerà, lasciando scoperti solo gli ultimi cento metri della collina che ne sta al centro. E poi dico: perché non mi hanno ancora raggiunto i soccorsi che evidentemente saranno stati inviati in zona subito dopo l’inabissamento del nostro incrociatore leggero?
A questa domanda rispondo così: la botta in testa che ho preso durante il naufragio mi deve aver lasciato svenuto (o addormentato: io ricordo solo sprazzi di cielo in sogno) per un paio di giorni, tempo bastante perché il mio corpo e la scialuppa in cui stava si siano allontanati di molte miglia dal punto (eravamo al largo) in cui l’Ausilia è affondata, a causa di una falla non avvertita in tempo utile. Che cosa incredibile, per un capitano di carriera come me, naufragare con il sole splendente, il mare liscio come l’olio e… per di più, che cosa vergognosa scivolare sul ponte in mezzo al terrore generale, dando una testata mostruosa e così perdere i sensi, invece di essere il primo ad organizzare l’evacuazione.
Inoltre mi chiedo: poiché di sicuro gli altri diciassette marinai sono sani e salvi da qualche parte – immagino anzi già rimpatriati in Italia – come mai solo io son finito qui, dentro un canotto di gomma completamente inservibile, una specie di giocattolo per bambini ormai impossibile da utilizzare?
E mi rispondo ancora: che fosse gente alla quale non ero simpatico sin dalla partenza da Napoli, avvenuta il 7 giugno del 2009, l’avevo capito bene. Evidentemente gli uomini mi han visto cadere in mare e dunque avranno pensato: che se lo mangino i pesci il capitano Accorimboni, ‘sto marinaio d’acqua dolce. Qualcuno di loro, pietosamente, mi ha dunque ripescato, infilato nel canotto e… buonanotte ai suonatori. Hanno perfino avuto il tempo di riempire la mia valigia con due coperte di lana grezza, una grossa bottiglia d’acqua, del pane, qualche abito, un calendario, una penna e della carta bianca e di sistemarmela accanto. Poi devono aver riferito ch’ero annegato. Bravi, eh.
Be’, tutti i torti non li aveva, l’equipaggio: mi arruolai nella Marina Militare cinque anni fa – avevo trent’anni – solo per disperazione, anzi per la disperazione di un laureato in Lettere di famiglia non abbiente disoccupato che un giorno vede il concorso della Marina Militare Italiana, vi partecipa e lo vince. Amore per il mio lavoro, insomma, niente, zero assoluto: ed è cosa che traspare agli occhi della ciurma, questa.
Secondo capitolo-giorno
Non ho preso a compilare questo diario solo per me stesso, ossia per vedere la trascrizione delle parole che mi dico ad alta voce ogni giorno, soprattutto dopo il tramonto, sin da quando sono rinvenuto vicino ad uno scoglio, nei pressi del roccioso promontorio occidentale. No, no.
Ho iniziato a scrivere solo ieri sera perché proprio ieri sera ho trovato un libro sulla spiaggia, a poca distanza dalla mia capanna: così mi ha aggredito la stramba tentazione di tornare ad essere un uomo, dopo sessantacinque giorni di eccelsa lontananza dalla scrittura e da chi la pratica. Era un libro particolare, quello: quasi caduto dal cielo (ma penserei piuttosto, con maggior realismo, dalla biblioteca dell’Ausilia) apposta per ricordarmi che la mia tesi di laurea fu dedicata al suo autore, che lo studiai alle scuole medie e che, soprattutto, l’ho sempre considerato l’unico testo narrativo veramente importante acché fosse concessa all’uomo italiano ed europeo moderno una parvenza di mitologia che non sia quella classica – grecoromana intendo: la sola eterna in mezzo alla sconfinata folla di disperati tentativi posteriori.
In ogni caso, questo è l’unico libro che io abbia reperito finora in questo angolo di eden: e vedo che la sua carta è diversa da quella che – ulteriore dono della mia nave – mi ha concesso di iniziare a scrivere per fare chiarezza tra le migliaia di parole che mi affollano la mente. La carta dopotutto è il cuore pulsante della scrittura ed anche il suo fisico, il suo corpo aderente a quello di chi lo sfoglia, e noi ne tocchiamo la pelle sapendo che sotto ad essa si celano vene, ossa e organi.
Così lascio che il brivido della parola scritta spadroneggi nuovamente sul mio corpo e vada ovunque possa arrivare. E chissà dove può? Be’, ciò mi servirà almeno a riassumere qualche tappa della mia vita per poterla vedere nero su bianco, chiaramente fissata su di un qualche supporto (per questo motivo ho deciso di intitolare capitolo-giorno i resoconti quotidiani di questo diario: ogni giorno un capitolo della mia vita nel Pacifico, d’ora in avanti, in ordine rigorosamente cronologico).
Quel libro però è diverso da queste mie parole, sì… ad esser banale dirò che la sua particolarità sta nel fatto di esser stato creato da quello scrittore ligure mentre costui aveva ben presente l’elettrizzante enormità del Mare delle Parole – così lui, eccitatosene oltremodo, le deve avere pescate dal pelago infecondo, selezionate e messe in riga con accorta sapienza artistica e filosofica; le ha sottratte alla tradizione da cui provenivano (senza però offenderla: in tutta confidenza) e ha fatto loro un piacevole bagno in acqua dolce, dandole dunque in pasto a chi, come noi tutti, non capisse fino in fondo dove come e perché stesse vivendo nei modi in cui viveva. Insomma, parole vive anche se vecchie, cioè prese da un repertorio lessicale classico – ma chi riesce ad invecchiare bene è sempre più giovane dei giovanottoni, dei sempreverdi, dei… dei neologismi, si sa. E di sicuro più raffinato.
Terzo capitolo-giorno
Oggi mi son svegliato sulla mia amaca che il sole era già alto (d’altronde lo faccio spesso, poiché la notte ho preso a tirar tardi con quel libro: ne leggo almeno tre volte ogni periodo; spesso esamino ripetutamente anche delle semplici proposizioni) e sono stato in silenzio fino a cinque minuti fa, ossia poco prima di riprendere in mano questo diario. Adesso che il sole è scomparso dietro la gobba del mare voglio rifletterci su. La notte scorsa ho completato la lettura del primo capitolo de Il visconte dimezzato e una multiforme angoscia, che non avevo avvertito nelle mie precedenti letture (l’ultima sei anni fa), mi ha assalito inaspettatamente: com’è possibile che il viaggio del visconte Medardo verso la Boemia, dove il giovane italiano dovrà scendere in campo contro i turchi, con i suoi funesti presagi, stanotte mi abbia terrorizzato a tal punto da farmi chiudere il libro? Accenderò il fuoco e poi tornerò a te, diario: il movimento fisico rimescola sangue e pensieri, dà loro aria nuova, linfa.
(da Sergio Sozi, Un piatto di lumache. Saggio narrativo su Italo Calvino e I nostri antenati)
L’immagine: Sergio Sozi, in ottima forma (foto di Gaetano Scognamillo).
Simone Jacca
(Lucidamente, anno V, n. 52, aprile 2010)