“Leggiamo” il Sessantotto e i successivi anni di piombo attraverso due libri che ripercorrono non solo le vicende di quegli anni, ma anche quelle familiari di due personaggi che furono, per differenti motivi, protagonisti dell’epoca: Luigi Calabresi e Toni Negri. Da un lato Spingendo la notte più in là (Mondadori, pp. 134, € 14,50) di Mario Calabresi, giornalista e scrittore, attualmente direttore de La Stampa e figlio del commissario di Pubblica Sicurezza Luigi Calabresi, assassinato nel 1972. Dall’altro Con un piede impigliato nella storia (Feltrinelli, pp. 272, € 17,00) di Anna Negri, regista e sceneggiatrice, figlia di Toni Negri, ideologo di Potere operaio e di Autonomia operaia, nonché docente universitario di Filosofia del diritto.
I figli, eredi e vittime di una storia che non appartiene loro
Difficile scegliere il proprio destino quando, anche cercando una propria identità politica, per esempio partecipando ai collettivi studenteschi di Lotta continua, tutti la presentavano e la additavano come la “figlia di Toni”. Anna Negri si sente addosso quell’etichetta, ed è consapevole di essere e pensare in un certo modo per i genitori che ha avuto. “Insomma, uno ereditava non solo un corpo ma anche dei pensieri con i quali crescendo doveva confrontarsi”. Spesso, per non incorrere nel pensiero del padre in galera e della famiglia divisa, si rifugiava nel cibo, anche per creare una corazza tra lei e il mondo: difatti era ingrassata a dismisura in quegli anni, tanto che ha dovuto ricorrere al dietologo. Altro stratagemma per allontanare il dolore era l’abuso di droghe. E che dire dell’offerta a Mario Calabresi di un posto a la Repubblica? Il suo sogno, allora, era lavorare per un quotidiano. Tuttavia, si sente a disagio e pensa di rifiutare: il giornale ospita gli articoli di Sofri, condannato come mandante dell’omicidio del padre. Prezioso e risolutivo il consiglio della madre: «Mario, non permettere che altri decidano ancora il tuo destino, lo hanno già fatto quando eri bambino. Questa volta decidi tu».
Le madri
Da un lato emerge l’immagine di una madre, Gemma Calabresi, fiduciosa nella magistratura, una persona che dignitosamente, per amore dei figli, affronta la morte del marito, Luigi, cercando di farli crescere non nel rancore e nella polemica, ma nel rispetto verso tutto e tutti. Una donna composta, che piange quando in tribunale pronunciano le condanne per la morte del coniuge, si addolora per i familiari dei condannati. Una madre che non si abbandona alla depressione e continua a battersi per la verità e la giustizia per non “lasciar vincere la loro cultura della morte”.
Dall’altra c’è Paola Negri, che spesso la figlia chiama per nome. A seguito dell’arresto del marito, si dedica totalmente ai problemi processuali di Toni, anche a scapito della cura dei figli. Alterna entusiasmo ed euforia alla depressione. «Ci aveva insegnato a vivere come fossimo in un romanzo d’avventura, con il distacco e l’ironia necessari a superare l’angoscia quotidiana». Pur avendo condiviso certe idee rivoluzionarie, estremizzate nella lotta armata, si identifica con le vittime del terrorismo, in quanto facenti parte del suo ceto sociale.
La folle strategia del terrorismo rosso
Le Br «[…] pensavano di portare l’Italia in una situazione di guerra civile, volevano che il governo andasse sempre più a destra, che ci fosse sempre più polizia, perché così secondo loro la gente si sarebbe ribellata più in fretta». Era il 1978, l’anno del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro. Secondo Anna Negri, si aveva l’impressione che i brigatisti si fossero arrogati il compito di esprimere la volontà del popolo, senza, tuttavia, averlo consultato. A proposito degli omicidi politici, Mario Calabresi riporta le parole pronunciate dal dirigente comunista Pietro Ingrao in quegli anni: «Non si può ammazzare in nome della classe operaia, in nome di un’ideologia. Voi che avete fatto cento anni di lotte sindacali per migliorare di un quarto d’ora la vita di un uomo come potete pensare che poi lo si uccida?». Sottolineando l’importanza dei media nella diffusione delle notizie, soprattutto di quelle legate agli anni di piombo, Calabresi critica coloro che hanno descritto i terroristi come i perdenti di “una battaglia ideale”, tanto da risultare, per una parte dell’opinione pubblica, dei modelli e non degli assassini.
La ricerca della verità e il prolungamento della memoria
Mario Calabresi, composto come la madre, non si dilunga sui terroristi. Tuttavia comunica al lettore la sua indignazione attraverso le parole di alcuni parenti di vittime del terrorismo. Francesca Marangoni, per esempio, discutendo col giornalista sul tema, dice delle Br che uccisero il padre, direttore sanitario del Policlinico di Milano fino al 17 febbraio 1981 (quando gli spararono sotto casa): «i brigatisti si portano dietro un’aura di persone impegnate, di combattenti, invece erano dei poveretti che facevano la lotta armata per riscattare delle vite senza prospettive, gente povera di idee e di spirito».
Del colloquio con la vedova di Fausto Dionisi, agente di polizia ucciso nel 1978 da alcuni brigatisti nel tentativo di far evadere altri compagni, Calabresi scrive: «Ci sono cose intollerabili, che superano la soglia della sopportazione. Non discuto le leggi e la possibilità per i terroristi di rifarsi una vita, ma mi aspetterei da loro e dalle istituzioni almeno rispetto e buongusto. Di più, dagli ex terroristi mi aspetterei il silenzio, la capacità di stare un po’ in disparte, almeno per non riaprire continuamente le ferite. Perché la verità è che il “fine pena mai” lo hanno applicato a noi. Loro hanno la seconda opportunità di vita, mentre a noi, e a chi hanno ucciso, questa possibilità è stata completamente tolta».
Calabresi sottolinea con forza che per i parenti delle vittime la “pena” non termina, il dolore si protrae e si intensifica nel vedere l’omicida di un proprio caro intervistato in televisione, seduto in Parlamento o pubblicare libri di memorie.
Ferite sempre aperte
D’altro canto, a volte, “l’eterna pena” a cui sono condannati i familiari delle vittime si traduce in sete di vendetta. Così Anna Negri ci racconta la sua angoscia nel ricevere una cartolina raffigurante un bebè grassoccio, dietro la quale c’era scritto: «Se verrà provato che sei un terrorista uccideremo uno dei tuoi familiari, così capirai che cosa vuol dire avere dei parenti uccisi», ovviamente indirizzata al padre.
Le emozioni che la Negri ci trasmette al termine del suo libro, la “avvicinano” a Calabresi: «E ci sono ferite che non si rimarginano perché è morta tanta gente, sono morti ragazzi in manifestazione, sono morte vittime del terrorismo, quelle delle bombe, ma sono morti anche tanti poliziotti e sono morti tanti operai, come quelli che lavoravano alla Montedison, stroncati dal cancro, e per ognuno di loro è stato ingiusto, e so come si sono sentiti tutti quei figli che non c’entravano niente. E ho capito che ogni morto è importante, da qualunque parte sia».
L’immagine: la copertina del libro Con un piede impigliato nella storia di Anna Negri.
Francesca Gavio
(LucidaMente, anno IV, n. 48, dicembre 2009)