Lo storico gruppo di voci, fondato nel 1947 dal maestro Giorgio Vacchi, compie settant’anni. In occasione di un concerto abbiamo intervistato la figlia dell’ideatore, l’attuale direttrice Silvia Vacchi, che ci ha guidato in un arcaico mondo di passioni, fatiche e amare verità: un viaggio alle radici del nostro presente
Direttrice di due complessi corali, concertista, insegnante di canto, impegnata in progetti musicali con gli alunni delle scuole elementari, Silvia Vacchi è una professionista versatile e completa, difficile da etichettare. Fin dalle prime battute, attraverso le sue parole misurate e precise, trapelano l’amore per le sette note nelle loro svariate forme, l’attenzione per il territorio e le tematiche sociali, le stesse che rivivono nei canti popolari e che vanno dal lavoro ai diritti civili, all’emancipazione femminile.
Figlia d’arte, Silvia Vacchi ha ereditato dal padre Giorgio, etnomusicologo e compositore, la conduzione del complesso bolognese da lui fondato nel 1947, il Coro Stelutis, che dal 2000 ha sede in via Pallavicini 21, all’interno di un fienile ristrutturato che, nel dialetto locale, prende il nome di La Tîz. Attualmente formato da più di cinquanta voci, il coro si è esibito lo scorso 17 maggio presso il Teatro Antoniano di Bologna per celebrare un altro settantesimo anniversario, quello dell’Istituto per l’istruzione professionale dei lavoratori edili (Iiple, vedi anche Iiple Bologna dal dopoguerra a oggi: 70 anni “costruttivi”). Nella serata, animata da un ricco programma di premiazioni, spettacoli e rievocazioni della storia dell’ente, l’intermezzo musicale ha fatto da cerniera tra il passato e il presente, richiamando con i suoi canti popolari la testimonianza di chi ha lottato per il lavoro o di chi per troppo lavoro è morto, di mestieri umili o scomparsi, di amori tra combattenti partigiani, interrotti dalla guerra, o di amori sfortunati e condannati all’infelicità sin dal giorno del matrimonio.
Una ballata degli ultimi che, nel suo essere dedicata ai giovani studenti presenti in platea, poteva apparire anacronistica e fine a se stessa. E, invece, nei nostri tempi tanto confusi, la civiltà contadina, anche se (o forse proprio perché) così arcaica e immobile nei suoi valori, ci viene in aiuto, ricordandoci l’importanza della dignità che scaturisce dal lavoro, la crudeltà di certi pregiudizi tuttora inconfessati ma sempre operanti, la solidarietà tra compagni di fatiche e di sacrifici.
Nel repertorio scelto per la serata sono tornati a farsi sentire il grido del minatore ferito durante gli scavi al San Gottardo (Son già tre anni), il rimprovero e il dileggio alla sposa incapace di zappare e filare (Lazzarona), il rimpianto del partigiano che lasciò per sempre la madre e l’innamorata (Lassù sulle colline di Bologna), i consigli del contadino impegnato nella trebbiatura (Nell’aia), la preghiera degli operai di Venezia (Canto dei battipali) e il lamento delle filatrici per il padrone (La canapa). Come si nota dalla breve rassegna, il repertorio dello Stelutis è estremamente vario e attinge alla tradizione orale non solo emiliano-romagnola ma anche dell’Italia settentrionale. Al termine della serata abbiamo avuto il piacere di incontrare appunto la direttrice Silvia Vacchi e di soddisfare qualche nostra curiosità.
«Il nostro coro è formato da più di cinquanta elementi. Fino agli anni Novanta si trattava di voci solo maschili, alle quali poi si affiancarono anche quelle femminili. L’obiettivo per tutti è semplicemente quello di cantare. È chiaro che servono una qualche predisposizione naturale e un certo interesse ma, a parte questi presupposti, il coro funziona come una vera e propria scuola, che si ritrova settimanalmente per svolgere le prove».

«Tutto iniziò con mio padre, Giorgio Vacchi, che, oltre a fondare il coro nel 1947, fu sempre impegnato in una continua ricerca sul campo, grazie alla quale riuscì a raccogliere numerosissimi canti, sia della nostra regione (come quelli di Gaggio Montano o di Castiglione dei Pepoli) sia dell’Italia settentrionale, attirando persino l’attenzione di ricercatori stranieri. Insieme all’amico Amos Lelli ha poi ideato un metodo di archiviazione e di elaborazione dei testi e delle melodie ritrovate, stabilendone così una versione definitiva».
Si può dire quindi che suo padre fosse per metà esploratore e per metà filologo…«Trattandosi del mondo contadino, fatto di oralità, era indispensabile sottrarre queste melodie tradizionali all’oblio e provare a darne una forma fissa e replicabile. Per tale motivo mio padre ha voluto analizzare i tratti distintivi dei canti, realizzando un archivio che ne permettesse uno studio comparatistico».
Fra tutti i pezzi che stasera abbiamo ascoltato, ce n’è uno al quale si sente particolarmente legata?«Sì, devo dire che Lazzarona mi è molto caro. Il titolo dà anche nome a un disco che abbiamo inciso con il coro nel 2012 e che raccoglie tredici brani incentrati sulla figura femminile. Nel testo ci sono parole molto forti, che riflettono un luogo comune dei canti popolari».

«Possiamo dire che il tema è uno sviluppo dell’argomento della malmaritata. Questo era un gruppo di canzoni assai diffuso in passato, che ritraeva la donna pentita all’indomani delle nozze o perché costretta a sposarsi, anche se innamorata di un altro, o perché disillusa dalla vita coniugale. Un motivo ricorrente, per esempio, era quello della dote giocata all’osteria dal marito bevitore. Nel nostro caso, invece, ci troviamo di fronte a una sposa che nel giorno del suo matrimonio viene addirittura scacciata perché incapace di lavorare. Lazzarona, come dice anche il suo nome, è una buona a nulla che non sa filare né zappare».
Mi scusi, filare era un’attività comunemente svolta dalle donne, possiamo dire dai tempi di Penelope, quanto a zappare… non era ritenuto troppo faticoso?«Assolutamente no. Purtroppo abbiamo spesso un’immagine edulcorata della civiltà rurale, che invece trattava le donne come autentiche bestie da soma, anche a metà del secolo scorso. In Lazzarona si alternano due voci. La prima è festosa: “Fate allegria / mamma mia / la sposa è già qui / fate allegria / che oggi è il suo dì”. La seconda, invece, smorza ogni entusiasmo: “Che allegria / dobbiamo mai far / dalle la zappa, / dalle la zappa / e falla zappar”. Ma Lazzarona a “zappare non è buona” e viene mandata via».
Una storia pesante, che ci siamo appena lasciati alle spalle…«Sì, e dobbiamo aggiungere che Lazzarona non è affatto un unicum, ma quasi un topos del canto popolare. Impossibile non tenerne conto, soprattutto per capire qualcosa delle radici del nostro presente».
A proposito di presente, lei è molto impegnata anche sul fronte della didattica nelle scuole. Che cosa ci può raccontare di questa esperienza?«È un’attività a cui mi dedico da anni, rivolta agli alunni delle scuole primarie ai quali proponiamo delle lezioni-concerto, sempre con i membri dello Stèeutis. Lo scopo è quello di stimolare nei ragazzi un ascolto attivo dei repertori tradizionali e di dimostrare nella pratica come funziona il coro».
Le immagini: la direttrice Silvia Vacchi; il logo del Coro Stelutis; la copertina del cd Lazzarona!; un’esibizione del Coro Stelutis al completo.
Antonella Colella
(LucidaMente, anno XII, n. 138, giugno 2017)