Genitori, giudici, comunità di accoglienza, affidi: tanti i fattori in gioco nel futuro di ragazzi con realtà problematiche. Il magistrato Danila Indirli ci aiuta a delineare il quadro di diritti e doveri di chiunque sia parte in causa
A dicembre 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha pubblicato il rapporto finale sugli «affidamenti familiari e collocamenti in comunità al 31.12.2012». I dati ministeriali indicano che i minori interessati (da 0 a 17 anni) sono 28.449. Di questi, 14.194 risultano dati in affidamento e 14.255 in strutture di accoglienza. In media il rapporto complessivo è di 2,8 bambini ogni 1.000 residenti della stessa età.
In generale, in linea con la legge 149 del 2001 sulla «disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», si evidenzia un maggiore ricorso alla famiglia adottiva rispetto alla comunità. I dati forniti dal Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza fanno emergere che i bambini collocati presso affidatari sono il 35,8% fino ai 2 anni; il 57,3% dai 3 ai 5; il 61,4% dai 6 ai 10; il 54,2% dagli 11 ai 14; il 33,8% dai 15 ai 17. Solo in quest’ultimo caso si evidenzia una superiore incidenza del collocamento in comunità, probabilmente perché il bisogno formativo di un adolescente richiede una competenza pedagogico-educativa specialistica e non solo il conforto amorevole dei genitori. Considerando il genere, si vede che il 43,5% dei maschi è ospitato in famiglie e il 56,5% in comunità, mentre il 52,2% delle femmine è accolto presso nuclei affidatari e il 47,8% in comunità.
Se l’analisi si sposta sulla cittadinanza, i minori italiani ospitati in casa sono il 47,5% e quelli in comunità il 52,5%. Per i giovani stranieri la situazione è diversa: il 33% si trova in affidamento e il 67% in strutture di accoglienza. Il quadro diventa allarmante quando si considerano gli stranieri non accompagnati, ragazzi che giungono in Italia da soli e senza alcun riferimento in loco: di questi ben l’86,1% finisce in comunità. Nel complesso, tali dati, riferiti sia a connazionali sia a immigrati, ci raccontano che maggiore è l’età e più frequentemente i minori vengono collocati in comunità.
Per chiarire la delicata materia dell’allontanamento dei bambini dalla famiglia di origine, regolato dalle linee guida del 2010, su iniziativa del Cnoas (Consiglio nazionale ordine assistenti sociali) e dell’Aimmf (Associazione italiana magistrati per i minorenni e per la famiglia), abbiamo intervistato il magistrato Danila Indirli, attualmente consigliere presso la terza Sezione penale e la Sezione minorenni della Corte di Appello di Bologna e precedentemente giudice togato presso il Tribunale per i minorenni (Tm) di Ancona.
Grazie, dottoressa Indirli, per averci concesso questo colloquio. Ci può spiegare qual è il ruolo della giustizia nei casi di collocamento del minore in comunità o in affido?«Innanzi tutto bisogna chiarire che l’accoglienza in comunità o presso una famiglia è una misura limite e risponde ai presupposti di un esercizio della funzione genitoriale non idoneo o pregiudizievole. L’adozione di tale provvedimento avviene solo dopo aver constatato l’inefficacia di percorsi di sostegno alla genitorialità. Il tribunale in questo caso incarica il servizio sociale e, attraverso un costante monitoraggio, ne valuta l’esito in relazione a un tempo ritenuto congruo per la risoluzione delle difficoltà familiari, tenendo conto soprattutto dell’interesse del minore e dei bisogni legati a quel momento della sua crescita».
Chi può emanare tali provvedimenti?«Le decisioni sono prese in camera di consiglio, che è composta da due giudici togati, uno dei quali presiede, e da due giudici onorari, un uomo e una donna, scelti tra cultori di Biologia, Psichiatria, Antropologia criminale, Pedagogia e Psicologia».
Quali criteri e strumenti si utilizzano per decidere l’allontanamento temporaneo o definitivo di un minore dalla famiglia?«Nel caso di un genitore tossicodipendente o con patologie psichiatriche gravi, per esempio, i servizi sociali incaricati dal Tm elaborano un progetto che consenta al genitore, entro un arco di tempo ritenuto congruo, di effettuare un percorso per eliminare o attutire il suo stato di malessere. Trascorso tale periodo, il tribunale verifica la situazione e predispone o il rientro del bambino in famiglia o altre misure ritenute idonee a tutelarlo e favorirne la crescita. Prima di predisporre un allontanamento definitivo, il tribunale si avvale di consulenti tecnici. Anche i genitori, quali parti processuali, possono nominare degli specialisti di parte. Se, all’esito del percorso svolto, la famiglia non risulta aver recuperato o acquisito adeguate competenze, si dichiara la decadenza della responsabilità genitoriale e lo stato di adottabilità del minore».
Quali sono i controlli per verificare l’adeguatezza degli affidatari e delle comunità?«Il Tm incarica il servizio sociale competente per territorio di individuare una struttura o una famiglia idonea al minore e di relazionare sull’andamento dell’affido o del collocamento. Anche i responsabili delle comunità riferiscono al Tm. Inoltre, il Pubblico Ministero minorile esercita il potere ispettivo presso le comunità e ne valuta la validità del progetto educativo, pure avvalendosi della polizia giudiziaria e dei sevizi sociali, ogni sei mesi in via ordinaria e in qualsiasi momento in via straordinaria. I servizi sociali, il giudice minorile togato e/o onorario valutano periodicamente l’adeguatezza delle famiglie affidatarie».
Esiste un dialogo tra famiglia e giudice minorile?«Nelle procedure inerenti l’ablazione (decadenza) o la limitazione della responsabilità genitoriale, il giudice minorile può sentire la famiglia affidataria e deve ascoltare il o i genitori del giovane. Nelle adozioni, il Tm deve per prima cosa sentire sia i genitori sia i parenti (entro il quarto grado) che abbiano rapporti significativi con il minore».
Il Decreto legislativo 154 del 2013 ha superato il concetto di “potestà” dei genitori introducendo l’esercizio della “responsabilità genitoriale”. Che cosa cambia nello specifico?«Il mutamento lessicale può definirsi epocale, in quanto il concetto di “potestà” esprime una situazione di potere del genitore sul minore e di correlativa soggezione del secondo nei confronti del primo. L’espressione “responsabilità genitoriale”, invece, evidenzia che anche il minore ha dei diritti, come quello di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Di conseguenza, ai genitori spettano i doveri di mantenere, educare, istruire e assistere il giovane nel rispetto delle proprie capacità. Infatti, nel diritto familiare, più che diritti soggettivi, esistono diritti relazionali di cui si è ugualmente titolari».
Le immagini: i loghi del Cnoas e dell’Aimmf.
Giovanna Chiricosta
(LucidaMente, anno X, n. 112, aprile 2015)