Cosa è cambiato dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, con globalizzazione e Unione europea
A) L’EVOLUZIONE STORICA DEI RAPPORTI TRA GLI ATTORI
1. GLI ATTORI DELL’ORDINAMENTO SINDACALE E I LORO RAPPORTI
In ogni ordinamento sindacale operano tre attori: le organizzazioni sindacali dei lavoratori, le organizzazioni sindacali imprenditoriali (e gli stessi singoli imprenditori), lo Stato (e, più in generale, le istituzioni pubbliche) i cui rapporti variano nel tempo e a seconda degli ordinamenti.
2. LE ORIGINI: LA REPRESSIONE DEL FENOMENO SINDACALE
In Italia i rapporti collettivi sono stati caratterizzati all’origine da forti tensioni conflittuali e da interventi repressivi da parte dello Stato nei confronti dell’organizzazione sindacale e a maggior ragione dello sciopero. Quasi tutti i paesi occidentali hanno attraversato una prima fase storica in cui l’ordinamento giuridico negava ai lavoratori e agli imprenditori la possibilità di organizzarsi collettivamente per motivi di autotutela.
3. IL PERIODO DELLA TOLLERANZA PENALE
Nella fase successiva lo Stato provvide a rimuovere i divieti penali al conflitto e all’organizzazione sindacale, sancendo la libertà di coalizione. Il Codice Zanardelli del 1889 inaugurò un periodo di tregua che durò fino al fascismo, non puniva lo sciopero e la serrata ma i comportamenti in contrasto con la libertà di lavoro.
4. IL PERIODO CORPORATIVO
In Italia l’avvento del fascismo interruppe lo sviluppo delle relazioni industriali. Furono demoliti la libertà di organizzazione sindacale e la liceità di qualsiasi forma di conflitto (sciopero o serrata) e si creò un sistema sindacale e contrattuale pubblicistico, completamente controllato dallo Stato. La legge 3 aprile 1926, n. 563, ammetteva formalmente la libertà sindacale, ma solo un sindacato di lavoratori e datori per ogni categoria poteva ottenere il riconoscimento legale dal Governo con attribuzione della personalità giuridica; era quindi tutto controllato dallo Stato che esercitava un controllo penetrante, sino allo scioglimento e all’amministrazione forzata. Una volta riconosciuti, i sindacati avevano ex lege la rappresentanza di tutti i componenti della categoria, quindi i contratti collettivi da questi conclusi avevano efficacia erga omnes. Il conflitto era represso penalmente come reato contro l’economia nazionale, riflessa in modo sistematico nel Codice penale Rocco, la cui normativa sarà destinata a durare in parte anche dopo la Costituzione repubblicana.
5. LA FASE TRANSITORIA (1943-1947) E LA COSTITUZIONE
Dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943) uno dei primi atti del Governo Badoglio fu quello di abrogare le corporazioni e le istituzioni tipiche della fase corporativa. La disciplina dei rapporti sindacali è parte essenziale del disegno delineato dai costituenti in temi di rapporti sociali e politici. Il modello costituzionale si fonda sulla valorizzazione del lavoro come criterio ordinatore generale dei rapporti tra Stato e società, e come fondamento di una partecipazione dei lavoratori alla vita produttiva e sociale; questo spiega la serie di diritti riservati esclusivamente ed individualmente ai lavoratori subordinati (art 35, 36 e 37 Cost.), nonché la serie di diritti di partecipazione collettiva (artt. 3, 39, 40 e 46 Cost.).
L’articolo 39 sancisce tre principi fondamentali:
a) la libertà sindacale come fondamento delle relazioni industriali (comma 1);
b) la registrazione del sindacato e il riconoscimento della personalità giuridica come presupposto per acquisire la capacità di stipulare contratti collettivi efficaci per tutti gli appartenenti alla categoria cui si riferiscono;
c) l’attribuzione di tale capacità contrattuale direttamente a rappresentanze unitarie dei sindacati registrati, in proporzione ai loro iscritti.
Il senso fondamentale di queste scelte è di costruire una soluzione mediana tra due modelli: la concezione corporativa, da un lato, che intende «il sindacato quale ente di diritto pubblico giuridicamente riconosciuto dallo Stato e sottoposto al controllo delle autorità tutorie»; la concezione liberale dall’altro, seguita parzialmente del periodo precorporativo, secondo la quale il sindacato non ha rapporti giuridici con lo Stato e non riceve da questo alcun sostegno. La valorizzazione del sindacato è rafforzata dal riconoscimento dello sciopero (art. 40), privilegiato rispetto alla serrata. Per questo aspetto rileva anche l’art. 46, che prevede la collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende «nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge». Peraltro, la norma è indeterminata, in quanto rinvia al futuro la definizione di tutti i principali elementi qualificativi della partecipazione.
L’art. 39 prevedeva, dunque, la possibilità per il sindacato di ottenere il riconoscimento giuridico. Secondo la norma il sindacato avrebbe dovuto iscriversi organicamente in un assetto costituzionale “con ruoli e funzioni prestabilite da un chiaro regolamento di competenze”. L’unica condizione prevista esplicitamente dall’art. 39 per la registrazione è l’esistenza di uno statuto a base democratica. Altro requisito è stato di regola individuato in un minimo di consistenza numerica; pur non previsto esplicitamente, esso è richiesto al fine di evitare la registrazione di organizzazioni del tutto inadeguate o fittizie.
6. LA CRISI DEL MODELLO COSTITUZIONALE
L’art. 39, seconda parte, Cost., non ha mai ricevuto attuazione. La crisi del modello dell’art. 39 si ha già con la rottura dell’unità sindacale (1948). Comune a tutti i sindacati è il timore di un controllo pubblico sulla propria organizzazione e sullo sciopero: perché l’attuazione dell’art. 39 avrebbe comportato inevitabilmente anche quella dell’art. 40. A ciò si aggiunse anche la resistenza, soprattutto dei sindacati minoritari Cisl e Uil, a inserire l’attività sindacale in un modello imperniato sulle rappresentanze unitarie secondo il principio di maggioranza. Tale articolo avrebbe infatti rinsaldato l’egemonia della Cgil, quale sindacato maggioritario, sulla contrattazione nazionale e ostacolato l’obiettivo, perseguito da Cisl e Uil, di favorire un’articolazione della contrattazione su base aziendale. La disciplina di riferimento dell’ordinamento sindacale si sposta così nel diritto privato. Il sindacato assume quindi la sua natura di associazione non riconosciuta, soggetta solo alle scarne norme degli art 36 ss. del Codice civile e per il resto demandata alle regole poste dagli statuti e lo stesso contratto collettivo viene assoggetto alle norme del c.c. sul contratto in generale.
L’impulso decisivo al superamento della prospettiva costituzionale del riconoscimento giuridico avviene nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori. La legge n. 300 è approvata nel mezzo del più intenso ciclo di lotte operaie verificatosi nella nostra storia, il biennio 1968-1970, e mira a rafforzare la presenza del sindacato nei confronti della controparte imprenditoriale e nei confronti di una pressione di base che rischiava di sfuggire al controllo delle organizzazioni. Lo statuto riprende l’ispirazione fondamentale della Costituzione di valorizzare il sindacato come agente di trasformazione sociale e di eguaglianza sostanziale, ma senza mettere in discussione e anzi, confermando, la scelta privatistica dei decenni precedenti.
La formula base cui si ispira la legge è quella del sindacato come centro di contropotere nell’azienda: una formula che rifiuta la logica centralistica dell’art. 39, seconda parte, nonché, ancora più chiaramente, l’impostazione cogestionale (partecipazione del lavoratore alla gestione dell’azienda) dell’art. 46. L’impostazione dello Statuto, che configura un sostegno al sindacato in azienda (riconoscendolo titolare di libertà, ma anche di pretese) fanno definitivamente cadere i timori di un’interferenza legislativa e ciò facilita l’adesione di tutti i sindacati alla legge. Nelle piccole unità permane invece una situazione di non tutela dell’iniziativa sindacale.
8. CONCERTAZIONE SOCIALE E INTERVENTO PUBBLICO
a) LO SCAMBIO POLITICO NELL’EMERGENZA DEGLI ANNI SETTANTA
Nel corso degli anni Settanta matura un profondo cambiamento nel ruolo dello Stato rispetto alle relazioni industriali. L’autogoverno delle parti sociali si rivela inidoneo rispetto alle urgenti esigenze economiche poste dalla sopravvenuta crisi nazionale e internazionale. Da mediatore che cerca di garantire le regole del gioco, lo Stato diviene un elemento fondamentale delle dinamiche delle relazioni industriali e vi interviene quale ulteriore contraente, gestore di proprie risorse. Lo Stato dispone di molteplici risorse: la legislazione di sostegno al sindacato; misure legislative e amministrative a favore dei lavoratori; agevolazioni di vario genere a favore dei datori di lavoro. Di contro lo Stato richiede ai sindacati comportamenti di moderazione e agli imprenditori il mantenimento di un tasso elevato di investimento. Tra i tre attori delle relazioni industriali si realizza in questo modo quello che è stato definito “scambio politico”.
I termini dello scambio sono più ampi rispetto a quelli della contrattazione economica e mettono in gioco risorse pubbliche e private: da parte sindacale, rallentamento della scala mobile, contenimento della conflittualità, maggiore flessibilità nell’uso della forza lavoro; da parte del Governo, politiche di sostegno al sindacato, all’occupazione, specie giovanile, fiscalizzazione dei contributi sociali, una prima flessibilizzazione della disciplina del lavoro; da parte imprenditoriale, una normalizzazione delle relazioni contrattuali e poi una modesta riduzione dell’orario di lavoro.
b) LE AMBIVALENZE DEGLI ANNI OTTANTA
Negli anni Ottanta si profilano condizioni nuove che influiscono nei rapporti tra Stato e parti sociali: la ripresa economica, l’innovazione tecnologica e l’internazionalizzazione dell’economia alimentano tendenze “liberiste”. Rispetto al decennio precedente si segnalano elementi di forte discontinuità: il decentramento della contrattazione collettiva; ripresa di distanze fra ordinamento sindacale e sistema politico, minore interventismo legislativo e del potere pubblico. Queste tendenze però non hanno assunto in Italia un carattere assoluto per la tradizione interventista del potere pubblico; la forza ancora diffusa del sindacato e il radicamento nelle istituzioni; il peso e le posizioni dei partiti più vicini al sindacato.
c) CONCERTAZIONE SOCIALE E STABILIZZAZIONE ECONOMICA NEGLI ANNI NOVANTA
Gli anni Novanta sono dominati, anche per i rapporti sindacali, dai problemi del risanamento e della stabilizzazione economica, aggravati dal peso del debito pubblico ereditato dal passato, dall’inflazione e dalla fragile competitività del nostro sistema. In questo contesto la concertazione sociale si dimostra uno strumento essenziale per sostenere col consenso il difficile perseguimento di questi obiettivi, e si traduce in un’altra serie di accordi triangolari che percorrono tutto il periodo. Con l’accordo del 31 luglio 1992 i sindacati accettano l’abolizione di un istituto storico come la scala mobile, che aveva retto per tutto il dopoguerra.
Ma la tappa più significativa è segnata dall’accordo del 23 luglio 1993, considerato la prima costituzione delle relazioni industriali italiane, che sancisce la partecipazione dei sindacati confederali alle decisioni macroeconomiche dell’esecutivo, e sostituisce il meccanismo automatico della scala mobile con quello della politica dei redditi, affrontando importanti aspetti di razionalizzazione delle relazioni industriali. Al posto della vecchia indennità di contingenza si introduce una nuova “indennità di vacanza contrattuale” e si prevede un adeguamento biennale del salario contrattuale definito a livello nazionale.
In questa vicenda il Governo ha un peso più che mai incisivo sulla concertazione centralizzata. Il suo intervento non si esprime nel sostegno economico alle parti, bensì soprattutto in attività di direzione e controllo rispetto alle parti sociali. Il Governo, infatti, si impegna a intervenire per modificare il quadro normativo in tema di disciplina del mercato del lavoro; nonché per ridare sostegno al sistema produttivo. Si tratta di un neointerventismo visibile anche sul piano dell’iniziativa legislativa, particolarmente diffusa negli anni seguenti, che raggiunse aree tradizionalmente fra le più resistenti come lo sciopero nei servici pubblici e che privatizza aree di storica disciplina legislativa come il rapporto del pubblico impiego. Alcuni temi del Protocollo del ’93 sono ripresi dall’accordo del 24 settembre 1996 (Patto per il lavoro), nel tentativo di rispondere all’esigenza di risanare i conti in pubblici in vista degli impegni assunti a Maastricht, si concentra sulle tematiche occupazionali.
Con l’accordo sociale per lo sviluppo e l’occupazione del 22 dicembre 1998 (Patto di Natale) la concertazione assurge istituzionalmente al ruolo di strumento di coordinamento tra ordinamento statuale e autonomia collettiva, ma anche tra ordinamento statale ed Unione europea. L’accordo del 1998 riconosce una priorità di iniziativa alle parti sociali nella regolazione delle materie di lavoro. Nel caso in cui queste ultime raggiungano un accordo, il Governo assume l’impegno, salvo per le tematiche di rilevanza finanziaria, di trasferire i contenuti dell’intesa e di sostenere l’approvazione nelle competenti sedi parlamentari (c.d. procedura di legislazione negoziata). Se le materie comportano un impegno di spesa, è invece previsto un confronto preventivo tra parti sociali e Governo, cui spetta la decisione finale (c.d. procedura di consultazione obbligatoria ma non vincolante). Tra le due procedure il confine è labile, e tanto la legislazione negoziata quanto la consultazione obbligatoria non rappresentano autentiche novità per il diritto sindacale italiano. Indubbiamente più innovativa è quella parte del Protocollo del dicembre 1998 che attribuisce alle intese triangolari concertative la competenza prioritaria per la trasposizione delle direttive comunitarie nell’ordinamento interno, in conformità con quanto previsto fin dal 1992 dal protocollo sulla politica sociale, allegato al Trattato di Maastricht.
d) LE PROSPETTIVE DELLA CONCERTAZIONE
Il patto per l’Italia del 5 luglio 2002, nonostante abbia un chiaro riferimento al contenimento dell’inflazione tramite la politica dei redditi inaugurata dai Protocollo del ’92 e ’93, persegue l’obiettivo prioritario dell’incremento del tasso di occupazione. Il metodo però è differente: nel tentativo di escludere un potere di veto in capo alle organizzazioni sindacali dissenzienti si evita accuratamente ogni riferimento al termine “concertazione”, sostituito dallo strumento del “dialogo sociale”, il quale si contraddistingue per la decisione unilaterale dell’esecutivo di intervenire su determinate e specifiche materie, anche in mancanza di accordo o di unanime consenso del fronte sindacale.
Con riguardo ai contenuti il Patto interviene su tre tematiche fondamentali: la riduzione dei livelli di tassazione; la ridefinizione degli strumenti di investimento nel mezzogiorno; e la riforma del mercato del lavoro e delle sue tutele, a conferma di quanto già auspicato con il Libro Bianco. È su quest’ultimo punto, e in particolare sulla proposta di una deroga temporanea e sperimentale all’art. 18 St. lav. in tema di licenziamenti individuali, che però il confronto tra Governo e Cgil raggiungerà toni particolarmente aspri, sino alla decisione di quest’ultima di rifiutare la sottoscrizione del Patto.
B) FUNZIONI E ISTITUZIONI PUBBLICHE NEL DIRITTO SINDACALE
1. L’INTERVENTO PUBBLICO NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI
L’intervento dello Stato e dei pubblici poteri nelle relazioni industriali ha avuto storicamente un’importanza sempre rilevante. Attualmente vi sono varie funzioni dello Stato rilevanti per le relazioni industriali: la funzione programmatoria e di governo; la funzione legislativa; la funzione decisoria, che si esplica attraverso la giurisprudenza ordinaria; la funzione conciliativa e mediatoria; le funzioni assistenziali o di welfare; le funzioni di gestione diretta dei rapporti di lavoro. Analogamente sono molteplici gli organi di intervento: oltre a Governo, parlamento, magistratura ed enti locali, operano altri organi di rilevanza costituzionale (il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Cnel), e organi del ministero del lavoro e degli istituti previdenziali. In realtà le relazioni industriali sono influenzate dall’insieme del sistema politico-istituzionale (si pensi ai legami tra partiti e sindacati), dalle politiche economico-sociali pubbliche (centrali e locali), nonché da eventi economico-politici di carattere globale come la internazionalizzazione dell’economia.
2. LE FUNZIONI DELLO STATO NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI: LA FUNZIONE MEDIATORIA E CONCILIATIVA
Le funzioni legislativa e giudiziaria hanno avuto intensità e orientamenti diversi a seconda dei vari periodi e degli specifici aspetti delle relazioni industriali. Tradizionalmente si distinguono le forme di intervento mediatorio e conciliativo a seconda che esse riguardino controversie giuridiche o economiche. La prima distinzione è riferita all’oggetto della controversia: quelle giuridiche riguarderebbero l’applicazione di norme già esistenti; quelle economiche la modifica di norme esistenti o la creazione di norme nuove. La seconda distinzione riguarda i soggetti, o meglio interessi, di gruppi o di collettività coinvolte nella disputa.
L’esercizio della funzione di conciliazione e mediazione può limitarsi a mettere in contatto le parti, a favorire il chiarimento delle posizioni reciproche, a esplorare punti di convergenza. Sempre più spesso però si estende a una valutazione di merito della questione o a predisporre gli strumenti per una soluzione duratura. Si parla di conciliazione in senso stretto nella prima ipotesi, di mediazione nella seconda; ma sovente i due termini sono usati come sinonimi. L’attività mediatoria e conciliativa pubblica rientra nelle competenze del Ministero del lavoro e degli organi periferici, e in Italia si è sempre svolta con caratteri di accentuata informalità, diversamente dalla maggioranza degli ordinamenti sindacali avanzati. L’intervento mediatorio è attivato a richiesta delle parti sociali e la sua efficacia può variare, a seconda dell’autorevolezza del mediatore medesimo, fino a sfiorare l’arbitrato, politicamente, se non giuridicamente, vincolante.
3. LA FUNZIONE ASSISTENZIALE (O DI “WELFARE”)
Si esprime in una vasta serie di interventi legislativi, amministrativi e finanziari, relativi all’intera gamma dei rapporti sociali e impegna una consistente fetta delle risorse nazionali. Sono da segnalare tre tipi di intervento: quelli di previdenza, di sicurezza e assistenza sociale in senso stretto; gli aiuti alle imprese; gli interventi di politica fiscale. La legislazione della previdenza e della sicurezza sociale costituisce una delle componenti originarie dell’intervento statale nei rapporti sociali. Alcuni di questi interventi rivestono una incidenza particolare sui rapporti collettivi.
Si tratta delle prestazioni dirette a garantire il reddito dei lavoratori e, direttamente o indirettamente, il posto di lavoro a fronte delle crisi occupazionali e di processi di ristrutturazione produttiva: sussidi di disoccupazione, garanzie della retribuzione in casi di riduzione-sospensione del lavoro e cassa integrazione, nonché in genere sostegno della domanda sul mercato del lavoro. Tali prestazioni hanno dimostrato un alto valore di scambio con il sindacato. Lo scambio funziona anche nei confronti delle imprese, sotto forma di aiuti finanziari, finalizzati al superamento di difficoltà economiche e di fiscalizzazione degli oneri sociali. Il ricorso a operazioni fiscali e parafiscali è tra gli strumenti più diffusamente utilizzati dal potere pubblico per influenzare il comportamento delle parti sociali. La fiscalizzazione degli oneri sociali è stata adottata ripetutamente negli ultimi anni per alleggerire la pressione del costo del lavoro sulle imprese.
Sul versante dei lavoratori lo Stato ha offerto riduzioni delle aliquote fiscali specie a favori dei lavoratori con redditi più bassi. Gli interventi di welfare sono peraltro soggetti a un progressivo ridimensionamento in tutti i paesi avanzati a causa della cosiddetta crisi fiscale dello Stato e sono altresì criticati dai teorici del liberismo come un peso indebito sull’iniziativa privata e sull’efficienza dell’economia.
4. LA FUNZIONE DI DATORE DI LAVORO
Tale funzione è svolta direttamente nel pubblico impiego. Inoltre lo Stato ha esercitato un’iniziativa attraverso il sistema delle partecipazioni statali, impartendo direttive alle aziende, nelle quali vantava una partecipazione azionaria, circa il loro comportamento nelle relazioni industriali. Le insoddisfacenti performances del settore pubblico hanno stimolato negli ultimi anni forti tendenze verso la privatizzazione, sia delle aziende pubbliche, sia del rapporto di impiego.
5. LA FUNZIONE PROGRAMMATORIA
La programmazione è considerata lo strumento per eccellenza di guida pubblica delle politiche economiche e sociali. Ma gli obiettivi e i metodi della programmazione sono alquanti diversificati, così da rendere lo stesso concetto di programmazione poco determinato. Un rilievo particolare ha assunto l’intervento dello Stato nella dinamica dei redditi, diretto cioè a predeterminare gli aumenti dei redditi da lavoro e talora anche dei prezzi, soprattutto a fini di contenimento dell’inflazione.
6. GLI ORGANI E LE ISTITUZIONI NAZIONALI
a) Il Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), previsto dall’art. 99 Cost., ha compiti di consulenza nei confronti delle Camere parlamentari e del Governo, di iniziativa legislativa e di contributo all’elaborazione della legislazione economica e sociale. È composto da 111 membri, di cui 12 esperti e gli altri rappresentanti delle categorie produttive, nominati dal presidente della Repubblica su proposta governativa e su designazione delle organizzazioni più rappresentate.
L’attività del Consiglio è stata a lungo marginale, oltre che per la debolezza dei poteri formali, per la diffidenza e la disattenzione che lo ha circondato. A togliergli spazio ha contribuito dapprima la sua struttura corporativa e poi la prassi di consultazioni e contrattazioni tra sindacati, imprenditori e Governo o istituzioni pubbliche su molte materie di grande rilievo economico sociale. Contro questa situazione di marginalità è intervenuta la legge n. 936/1986 che ha previsto l’istituzione di una Commissione dell’informazione e di un archivio dei contratti collettivi e di una banca dati «sul mercato del lavoro e sui costi e sulle condizioni di lavoro».
b) Il Ministero del lavoro ha avuto tradizionalmente competenza amministrativa generale in materia di lavoro e di sicurezza sociale. Operano diverse commissioni, composte di rappresentanti dei lavoratori e dei datori. In materia di rapporti collettivi la competenza più rilevante riguarda la mediazione dei conflitti. Il ministero ha operato tradizionalmente anche attraverso organi periferici: l’Ispettorato del lavoro, l’Ufficio del lavoro e le Agenzie del lavoro. Con il processo di decentramento avviato dal D.lgs n. 112 del 1998 i compiti attinenti ai servizi all’impiego e alla formazione professionale sono stati trasferiti alle regioni e agli enti territoriali. Al ministero restano compiti di indirizzo, controllo e vigilanza, esercitati attraverso l’Ispettorato del lavoro.
c) L’impiego di Organismi a composizione tripartita in materia di lavoro individuali e collettivi costituisce una tendenza di lontana origine, ma si è esteso soprattutto negli ultimi anni in Italia, delineando una tendenza tra le più significative dei nuovi rapporti tra Stato e parti sociali.
d) Il Governo è stato coinvolto nelle relazioni industriali con forme diverse: nella consultazione-contrattazione con le parti sociali per le maggiori decisioni economico-sociali fino alla definizione delle linee programmatiche dell’economia; in decisioni collegiali di ministri economici su questioni di politica industriale e del mercato del lavoro incidenti nei rapporti collettivi; nel settore del pubblico impiego come protagonista della contrattazione collettiva.
7. LA PARTECIPAZIONE SINDACALE NELLE ISTITUZIONI PUBBLICHE
La partecipazione dei gruppi sindacali alle istituzioni pubbliche è diffusa e risponde a una tipologia diversificata. Il rapporto più diretto è la partecipazione di rappresentanti delle parti sociali negli organi delle istituzioni pubbliche, generalmente di quelle in senso lato amministrative. Per le funzioni di governo e legislative, il metodo più usato è, invece, la consultazione e la concertazione. Queste forme partecipative sono state oggetto di aspre critiche che hanno indotto lo sviluppo del D.lgs n. 29/1993 (ora confluito nel D.lgs n. 165 del 2001), che, nel privatizzare il rapporto di lavoro pubblico, ha abrogato le norme sulla partecipazione sindacale nei consigli di amministrazione delle pubbliche amministrazioni, nonché nelle commissioni di concorso. Da un altro e concorrente versante, però, il sindacato è stato recentemente chiamato nell’ambito della riforma operata dal D.lgs n. 276 del 2003 a esercitare importanti funzioni di regolazione del mercato del lavoro per il tramite degli enti bilaterali, organismi costituiti per via contrattuale da entrambe le parti sociali e conosciuti da nostro sistema sindacale sin dall’inizio del secolo scorso.
8. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELL’ECONOMIA E GLI ORGANISMI INTERNAZIONALI
L’internazionalizzazione dell’economia è destinata a ridurre progressivamente il ruolo dello Stato nelle relazioni industriali e a indebolire quello delle parti sociali a livello nazionale. In ogni caso, sia il diritto statale, sia la contrattazione collettiva nazionale faranno sempre più fatica a filtrare da sole le pressioni internazionali e a contrastare la possibilità aperta alle imprese di scegliersi le regole più favorevoli dei vari sistemi nazionali. Proprio per contrastare tale prospettiva è cresciuta l’esigenza di forme di autorità sovranazionali, capaci di intervenire anche sui problemi del lavoro.
a) L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil, 1919, con sede a Ginevra), è l’organismo con competenze generali, soprattutto normative, di indirizzo e di assistenza in materia di lavoro, con l’obiettivo di contribuire al miglioramento delle condizioni sociali e del lavoro, nonché allo sviluppo di un ordine economico-sociale internazionale. La prospettiva classica di autoregolamentazione volontaristica dell’Oil mostra i suoi limiti sotto il peso crescente della globalizzazione, i cui effetti sono per molti aspetti incerti, ma presentano senz’altro la costante di indebolire lo Stato nazionale, e il rischio, al tempo stesso, di accentuare gli squilibri e le diseguaglianze tra individui, gruppi e territori.
b) Il Consiglio d’Europa (1949), ha elaborato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che sancisce tra l’altro il principio di libertà sindacale. Inoltre ha elaborato anche la Carta sociale europea che afferma diversi principi fondamentali in materia di lavoro: diritto al lavoro, alla retribuzione e a condizioni di lavoro eque, diritto di contrattazione collettiva e altri diritti sindacali. I principi della Carta sociale europea coincidono con quelli previsti, in ambito comunitario, dapprima dalla Carta di Strasburgo del 1989 e dalla Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 2000.
9. IL DIRITTO DEL LAVORO E LE ISTITUZIONI EUROPEE
L’Europa è la prima area del mondo sviluppato che si è data organismi e progressivamente un vero ordinamento sopranazionale, competente anche per i rapporti di lavoro. Le competenze sociali della Comunità, molto limitate nel Trattato istitutivo di Roma, si sono andate progressivamente allargando fino a comprendere non solo la gran parte dei temi del diritto individuale del lavoro, ma anche aspetti di diritto sindacale, come i diritti di informazione, di partecipazione, la concertazione sociale. Questa tendenza ha subito una forte accelerazione negli ultimi anni, con l’approvazione del Protocollo sociale di Maastricht, poi incluso nel Trattato di Amsterdam e in quello di Nizza, recepito nel Trattato costituzionale del 2004.
Come si è detto, la politica sociale comunitaria ha vissuto una notevole espansione che però non ha eliminato completamente alcune storiche debolezze. Dal versante delle competenze legislative i limiti storici vengono confermati: continuano così a essere escluse dalla politica sociale comunitaria alcune materie di rilevante interesse, quali le retribuzioni, il diritto di associazioni, il diritto di sciopero e di serrata. Sostanzialmente invariate sono anche le regole che hanno individuato un triplice piano del coinvolgimento del sindacato: il piano della consultazione, quello della contrattazione e quello dell’attuazione delle normative europee.
Anzitutto la Commissione ha il compito di promuovere la consultazione delle parti sociali a livello dell’Unione e adotta ogni misura utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti. A conferma di quanto già previsto dal Trattato di Amsterdam, il dialogo fra le parti sociali a livello dell’Unione può condurre a relazioni contrattuali, compresi accordi. Se il dialogo sociale così instaurato diventa contrattazione, l’accordo raggiunto può essere attuato in due modi: o tramite le procedure e prassi di ciascuno stato membro, o, se ha ad oggetto una delle materie di competenza dell’Unione e ci è la richiesta congiunta delle parti, in base a regolamenti o decisioni adottati dal Consiglio su proposta della Commissione. Il raggiungimento di accordi sindacali europei sconta un duplice ordine di problemi: da un lato, la questione strutturale dell’assenza di soggetti sindacali a livello europeo, tenuto conto che Ces (Confederazione europea dei sindacati) e Unice (Unione delle Confederazioni europee dell’industria e dei datori di lavoro) sono sprovviste tuttora dei poteri negoziali di rappresentanza necessari allo svolgimento dei ruoli da loro assegnati. Dall’altro lato, le questioni irrisolte che si annidano dietro le tematiche della determinazione della libertà sindacale, della scelta dei soggetti collettivi e delle funzioni a essi attribuibili dallo Stato, della individuazione delle forme di legittima espressione del conflitto.
Alessandro Saggini
(LucidaMente, anno XIV, n. 166, ottobre 2019)