Il grande movimento ideale dell’Ottocento italiano, che va sotto il nome di Risorgimento, fu seguito, accolto e, qualche volta, preceduto dalla “vetrina sociale” più rappresentativa e popolare dell’epoca: il melodramma. E se i teatri lirici erano lo specchio della società ottocentesca, dalla nobiltà alla borghesia grande e media (dei teatri di cartello), al basso ceto (che riempiva i teatri di provincia o quelli ove si rappresentavano opere buffe e farse), si può ben capire quale enorme valore riponessero nella censura coloro che erano preposti alla sorveglianza nel tentativo di tenere a freno le manifestazioni che, in ogni momento del processo risorgimentale, occorsero durante le rappresentazioni operistiche.
Manifestazioni che non furono soltanto appannaggio delle opere di Verdi (apostolo musicale del Risorgimento), come una poco oculata saggistica tende a farci credere, perchè le censure, le rivolte, gli scontri, davanti e dentro ai teatri, interessarono anche opere degli autori maggiori e minori dell’Ottocento italiano.
Effetti della censura sulle opere melodrammatiche – I primi inciampi politici in cui incorre il melodramma forse sono contenuti nell’innocua Italiana in Algeri di Rossini (1813), laddove l’aria di Isabella (“Pensa alla patria, e intrepido | il tuo dover adempi: |vedi per tutta Italia | rinascere gli esempi | d’ardir e di valor”) era fin troppo esplicita per la censura napoletana che sovrintendeva alle rappresentazioni del Teatro de’ Fiorentini dove fu portata in scena nel 1815. L’aria fu sostituita con la più conveniente Sullo stil de’ viaggiatori in quanto nemmeno un Pensa alla sposa, come vollero cambiarla a Roma, piacque ai censori partenopei. Cinque anni dopo fu il giovane Bellini ad essere coinvolto in un episodio “patriottico”, avendo aderito, nel 1820, alla Carboneria. L’entusiasmo durò pochi mesi: quando il 15 maggio 1821 re Ferdinando rioccupò il trono, il furore patriottico svanì nel nulla. Così racconta l’episodio Francesco Florimo, amico di Bellini e custode della sua memoria: “Ed in quel tempo [1820], spinti un po’ dagli amici e un po’ per seguire la corrente, ci siamo iscritti alla setta così detta dei Carbonari. Ma l’entusiasmo del momento doveva terminare coll’entrata delle truppe tedesche nel marzo del 1821. Si ritornò all’antico ordine di cose, ed addio libertà, addio costituzione: la reazione si mostrò da per tutto e per tutto”.
Il caso Maroncelli: artista stroncato dalla politica – In effetti, gli impegni che i compositori di musica avevano in vari teatri sparsi un po’ dovunque lungo la Penisola, sotto l’egida di un sovrano, e la libertà di viaggiare per far fronte a tali impegni, erano subordinati alla deferenza nei confronti di autorità repressive osteggiate dai liberali: i Borboni e gli Asburgo. Esempio lampante, in tal senso, il caso di Piero Maroncelli, musicista di talento e di sicuro avvenire, se non fosse stato per quel suo “vezzo” d’essere un carbonaro. Conseguenza: carriera stroncata, carcere duro; esule in America, dopo la scarcerazione, condusse un’esistenza di stenti come maestro di canto e d’italiano. Maroncelli studiò musica e lettere a Napoli e a Bologna, dove conobbe Gaetano Donizetti e ne divenne amico. Nel 1843 scrisse dagli Stati Uniti a Donizetti, ricordando con nostalgia l’ormai lontano soggiorno bolognese: “Tu non avrai dimenticato i begli anni di gioventù passati insieme a Bologna. Tu al Liceo musicale, io a questo ed alla Università; ed inoltre le care conversazioni in casa degli Antonii”.
Donizetti e il suo apparente disimpegno politico – Non è chiaro se le “conversazioni in casa degli Antonii” vertessero su tematiche musicali o politiche. Certo è che Donizetti rimase fondamentalmente indifferente alle istanze risorgimentali, nonostante che in Italia esista una tradizione orale secondo cui il compositore bergamasco avrebbe partecipato ad attività politiche. Da Roma, quando Gregorio XVI fece reprimere a fucilate i moti degli affiliati alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, scriveva al padre: “Io sono uomo che di poche cose s’inquieta, anzi di una sola, cioè se l’opera mia va male. Del resto non mi curo”. Per contro, nel 1831, a Modena, la congiura scoperta in casa di Ciro Menotti, la sera del 3 febbraio, fa sospendere le rappresentazioni degli Esiliati in Siberia di Donizetti: una marcia dell’opera è diventata l’inno dei rivoltosi. Nonostante l’apparente carenza di sensibilità politica del musicista bergamasco, una personalità impegnata come quella di Mazzini avrebbe di lì a qualche anno tentato di sfruttare proprio a fini politici la musica donizettiana. In uno scritto del 1836 (Filosofia della musica) Mazzini scrive: “Forse v’è più che presentimento e speranza lontana, forse, – se a ricostituire la musica non si richiedesse che genio, e non costanza sovrumana ed energia per combattere disperatamente contro i pregiudizi, e la tirannide de’ direttori venali, e la turba de’ maestri, e il gelo de’ tempi – anche tra’ viventi avremmo chi potrebbe, volendo, levarsi all’officio di fondatore della scuola musicale Italo-europea, e porsi a rigeneratore, dov’oggi non è che primo tra quanti militano sotto le bandiere della scuola Rossiniana Italiana. Parlo di Donizetti, l’unico il cui ingegno altamente progressivo riveli tendenze rigeneratrici, l’unico ch’io mi sappia, sul quale possa in oggi riposare con un po’ di fiducia l’animo stanco e nauseato del volgo d’imitatori servili che brulicano in questa nostra Italia”.
Arie che risvegliano i sentimenti patriottici – Ancora nella febbrile atmosfera dei giorni che precedettero le insurrezioni del 1848, durante una rappresentazione della Gemma di Vergy a Palermo, mentre il tenore che impersonava Tamas cantava “Mi togliesti e core e mente, | Patria, Numi e libertà”, questa fatidica parola scatenò i sentimenti risorgimentali del pubblico, che eruppe in grida patriottiche, costringendo la primadonna della serata, Teresa Parodi, ad apparire in scena col tricolore. Nonostante quanto detto sulla indifferenza di Donizetti verso le istanze risorgimentali, c’è da sottolineare il fatto che a Parigi il compositore ebbe contatti, se pur per motivi collegati strettamente al lavoro di operista, con Giovanni Ruffini, mazziniano, esule genovese, il quale scrisse il libretto per il Don Pasquale (1843) e alcuni rimaneggiamenti e la traduzione in italiano del libretto per il Dom Sébastien (1843). A Parigi Donizetti aveva quale agente e amico Michele Accursi, spia dello Stato Pontificio sotto le mentite spoglie dell’esule mazziniano. Mazzini, a sua volta, seppe utilizzare a proprio profitto la popolarità e la fama di “conformista” acquisita dal bergamasco (soprattutto dopo che il compositore divenne “maestro di cappella dell’imperatore d’Austria”) allorché adottò il suo recapito postale parigino come indirizzo delle missive segrete della Giovine Italia. Approfittando infatti della familiarità tra Donizetti, i fratelli Ruffini e Michele Accursi, i cospiratori mazziniani potevano inoltrare i loro messaggi a Parigi, inviandoli all’indirizzo del celeberrimo compositore. Accursi si incaricava di selezionare il materiale epistolare che riguardava gli scopi cospiratori: «Invii lettera a Mr. G[aeta]no Doniz[ett]i, Maitre de Chapelle de Sa Majesté Apostolique l’Empereur d’Autriche. Quel no nel G[aetano] indicherà a Mich[ele], ricevente, che son per noi».
Bellini e il Risorgimento – Anche la musica di Bellini fece la sua parte nel risveglio del furore patriottico nazionale. La stretta dei due bassi Suoni la tromba, che conclude il secondo atto de I puritani (1835), suscitò, a Parigi, l’entusiasmo generale, a livello di parossismo. Cristina di Belgioioso, coi suoi furori rivoluzionari d’élite, pensò di invitare i musicisti che frequentavano il suo salotto a comporre alcune variazioni sul tema: aderirono di buon grado Liszt, Thalberg, Herz, Czerny, Chopin, che misero insieme una composizione dal titolo Hexaméron. Non risponde a verità l’esclusione di questo brano dalla partitura dell’opera destinata a Napoli per problemi di censura: semplicemente non era stato ancora composto! Bellini, come è risaputo, lavorò su due versioni de I puritani: una per Napoli e una per Parigi, tra dicembre 1834 e gennaio 1835. La partitura per Napoli fu conclusa ai primi di gennaio. Suoni la tromba fu composta da Bellini, pare su consiglio di Rossini, quando ormai la partitura per Napoli giaceva in attesa di arrivare a destinazione. Ma a Napoli, per causa di forza maggiore, fu rappresentata la versione “parigina” nel 1837.
L’inno nazionale tra storia e leggenda – Michele Novaro (1822-1885), genovese, ebbe breve carriera di cantante, ma fu notevole didatta e discreto compositore di melodrammi. In gioventù cantò in due opere di Donizetti: nella Linda di Chamounix (1842) e nella Maria di Rohan (1843); in seguito condusse una apprezzabile carriera di secondo tenore al regio di Torino. Ai giorni nostri è famoso per aver composto la musica dell’inno patriottico Canto degli italiani (1847), con i versi di Goffredo Mameli, meglio conosciuto come Fratelli d’Italia. Dal 1946 al 2006 è stato l’inno nazionale “provvisorio” della Repubblica italiana (spesso fu proposto di sostituirlo con il Va pensiero verdiano): ora, per decreto, è stato riconosciuto definitivamente come nostro inno. Narra la leggenda che una sera di settembre del 1847, durante una riunione tra patrioti e appassionati di musica a Torino, il pittore genovese Ulisse Borzino portò a Novaro la bozza del Canto degli Italiani che gli mandava Mameli. Novaro improvvisò subito una marcia; durante la notte perfezionò l’unica sua opera che lo renderà famoso ai posteri. In quello stesso periodo Mameli fu il destinatario d’un breve carteggio con Mazzini, il quale chiedeva al poeta, in una lettera del 6 giugno 1848 (allegando una nota di Verdi), un inno patriottico che poi il maestro avrebbe musicato. Il testo fu scritto e l’inno musicato: ebbe (ed ha ) il nome di Suona la tromba. Verdi lo mandò al grande patriota italiano accompagnandolo con queste parole: “Ho cercato d’essere più popolare e facile che mi sia stato possibile. Fatene quell’uso che credete: abbruciatelo anche se lo credete degno […] Possa quest’inno, fra la musica del cannone, essere presto cantato nelle pianure lombarde. Ricevete un cordiale saluto di chi ha per voi tutta la venerazione”.
Verdi e il suo apparente impegno politico – In quello stesso periodo Verdi, da Parigi, prendeva i primi contatti con il librettista Salvatore Cammarano, da sempre sostenitore di aspirazioni patriottiche, a Napoli, per un’opera che rispecchiasse l'”epoca più gloriosa della storia italiana, quella della Lega Lombarda”. Dopo vari tentativi con la censura napoletana, i due convennero per un lavoro che sarebbe passato alla storia come La battaglia di Legnano. Questa opera, dal contenuto sovversivo, fu rappresentata durante la Repubblica romana, la sera del 27 gennaio 1849, qualche giorno avanti la proclamazione dell’effimera repubblica. Verdi, che curò personalmente l’allestimento della prima, ebbe un successo travolgente, tanto che il compositore fu investito di una onorificenza repubblicana. Questo fatto, però, nocque alla fama dell’opera che, in altre riprese fatte durante l’Ottocento, fu sottoposta al cambiamento del titolo, dell’ambientazione e dei personaggi. Per quanto riguarda il compositore, subito dopo la prima, se la svignò frettolosamente. “Ha fatto un viaggio di quattro giorni e 4 notti – scriveva Muzio a Ricordi – per l’Appennino faticosissimo e dopo essere arrivato a Pontremoli per non passare per le file tedesche per andare a Busseto, s’è deciso d’andare a Parigi”. Ma Verdi era uomo di musica e non d’armi; stando a Parigi si era illuso di poter comporre e portare avanti opere sovversive. La sua opera continuava, dal Nabucco (1836) alla Battaglia di Legnano, a raccogliere consensi e a coinvolgere i patrioti che trovavano nella sua cifra melodica e nella sua robusta orchestrazione ispirazione e monito per le loro lotte. Durante le cinque giornate di Milano, un osservatore straniero, J. Alexander von Hübner, così scriveva: “In mezzo a questo caos di barricate si pigiava una folla variopinta. Preti molti col cappello a larghe tese, fregiato di coccarda tricolore, signori in giustacuore di velluto… borghesi portanti il cappello alla Calabrese o in onore di Verdi il cappello all’Ernani”. Nell’aprile di quello stesso anno Verdi scrisse al librettista Piave, arruolato a Venezia nella Guardia Nazionale, una lettera nella quale faceva esplicite affermazioni: “… Sì, sì, ancora pochi anni forse pochi mesi e l’Italia sarà libera, una, repubblicana. Cosa dovrebbe essere? Tu mi parli di musica! Cosa ti passa in corpo?… Tu credi che io voglia ora occuparmi di note, di suoni?… Non c’è né ci deve essere che una musica grata alle orecchie delli Italiani nel 1848. La musica del cannone!…”.
Il tramonto degli ideali risorgimentali – Ma i moti del 1848 si concluderanno con una sostanziale sconfitta dei sostenitori della rivoluzione e, con essi, anche gli ideali repubblicani andranno a bagno. Tanti i nomi che passeranno alla causa monarchica e tra essi troviamo anche Verdi (appena eletto delegato per Busseto dopo l’annessione al Piemonte), che in una lettera dell’8 settembre 1859 scriveva al podestà di Busseto: “L’onore che i miei concittadini vollero conferirmi nominandomi loro rappresentante all’Assemblea delle Provincie parmensi mi lusinga, e mi rende gratissimo. Se i miei scarsi talenti, i miei studi, l’arte che professo mi rendono poco atto a questa sorta d’uffizi, valga almeno il grande amore che ho portato e porto a questa nobile ed infelice Italia. Inutile il dire che io proclamerò in nome dei miei concittadini e mio: la caduta della Dinastia Borbonica; l’annessione al Piemonte; la Dittatura dell’illustre italiano Luigi Carlo Farini. Nell’annessione al Piemonte sta la futura grandezza e rigenerazione della patria comune. Chi sente scorrere nelle proprie vene sangue italiano deve volerla fortemente, costantemente; così sorgerà anche per noi il giorno in cui potrem dire di appartenere ad una grande e nobile nazione”. Il lettore che ha seguito fin qui queste brevi note ricorderà forse il film Senso, per la regia di Luchino Visconti (1954), nel quale si narra una storia d’amore ambientata nell’Ottocento risorgimentale. La scena d’apertura si apre in un teatro d’opera ove è rappresentato Il trovatore di Verdi (1853) con una coinvolgente dimostrazione patriottica proprio durante la famosa cabaletta Di quella pira. Ma già da molto tempo le tematiche storiche erano state abbandonate dallo stesso Verdi e con l’unità d’Italia ben altri saranno i risultati dei proponimenti dei tanti che credettero nel Risorgimento.
L’immagine: locandina del film Senso di Luchino Visconti, citato nel testo.
Francesco Cento
(LucidaMente, anno II, n. 14, febbraio 2007)