È necessario intraprendere una nuova politica economica che, anziché ricercare il pareggio del bilancio, miri a rilanciare l’occupazione, i consumi e i servizi
Il governo Monti ci ha portato un bel regalo di Natale! Non c’era bisogno di tanti professoroni, alti funzionari e banchieri per tagliare pensioni, fondi a regioni e comuni, rimettere l’Ici e aumentare l’Iva, senza neppure discutere coi sindacati: bastava un gruppo di ragionieri e si sarebbe pure risparmiato sugli stipendi d’oro! Dove sono le misure per la crescita? Dov’è la tanto decantata “equità”? Una mini patrimoniale ridicola e poche misure di facciata che sfiorano chi ha tanto e chi non ha mai pagato, coprono in realtà una mazzata terribile sulla testa di pensionandi, pensionati, giovani, ammalati, possessori di case e ceti medio-bassi.
L’errore di Monti è quello di aver sposato la dottrina dell’“austerità espansiva”, il modello fallimentare iperliberista dell’Unione monetaria europea, fatto di estremo rigore e misure restrittive, nell’illusione, già rivelatasi disastrosa in Grecia e in Spagna, di dare poi impulso alla crescita. Queste politiche economiche non sono state neppure in grado di stabilizzare i mercati finanziari e ridurre i tassi di interesse sui titoli pubblici, perpetuando invece il circolo vizioso “austerità-recessione-deficit-nuova austerità”. Questa dottrina si basa sull’idea errata che la Banca centrale europea non debba rifinanziare l’indebitamento pubblico e che si debba lasciar giudicare il mercato e le agenzie di rating. La Bce perciò è debole, senza una funzione istituzionale di supporto, lasciando generare timori perfino sulla solvibilità dello Stato e rendendo tossici i titoli pubblici. Affinché venga conservato questo strano modello di Banca centrale, gli Stati vengono obbligati a perpetrare misure di drastica austerità con le conseguenze che abbiamo conosciuto.
Centinaia di prestigiosi economisti provenienti dalle maggiori università italiane e internazionali hanno scritto a Monti che rimettere in ordine i conti pubblici non è sufficiente per arrestare la crisi, perché la sfiducia non riguarda più il singolo Paese, ma l’intera zona euro, viziata da un difetto costitutivo riguardante il ruolo della Bce. Vi sono Paesi che sono fuori dalla Unione Europea con elevati disavanzi e debiti pubblici come Giappone, Gran Bretagna e Stati Uniti: perché questi Paesi non subiscono attacchi speculativi come quelli dell’eurozona? Perché hanno una banca centrale che, stampando moneta, può acquistare titoli direttamente dallo Stato, nel caso in cui i mercati rifiutino di farlo. In Europa non si può, perché il cancelliere tedesco, Angela Merkel, si oppone a modificare il ruolo della Bce e perfino a far emettere Eurobond in grado di sostituire i titoli di stato nazionali. Ciò permetterebbe invece una stabilizzazione del rapporto debito/pil che tranquillizzerebbe i mercati, e si tradurrebbe in avanzi di bilancio necessari al sostegno della domanda aggregata e della crescita, particolarmente rilevante nelle fasi recessive come l’attuale. La Bce è l’unica Banca centrale del mondo che compra titoli di Stato solo dalle banche private (all’1,5% di interesse): con questi soldi le banche private speculano felici e contente, comprando per esempio in Italia titoli di Stato al 7% di interesse.
Il debito pubblico matura in Italia negli anni Settanta, quando la spesa sociale viene adeguata ai livelli europei, ma non le entrate fiscali. L’aumento dei tassi di interesse internazionali, l’ingresso nello Sme e il “divorzio” fra Tesoro e Banca Centrale, la perdurante evasione fiscale determinarono l’esplosione della spesa per gli interessi e l’aumento del debito. La crisi di bilancio, dunque, non è generata dai costi dello stato sociale, che oggi viene macellato, ma sostanzialmente da un calo delle entrate fiscali che dura da molto tempo. L’emersione del problema del debito è dovuta soprattutto al rifiuto della Merkel di finanziare la Grecia nel 2009, quando bloccò per mesi gli aiuti europei facendo degenerare la situazione. Questo ha scatenato l’assalto speculativo della finanza internazionale, che si è poi esteso ad altri Paesi come Irlanda e Portogallo, poi Spagna e Italia, lambendo la Francia e ora la Germania. Gli investitori in effetti hanno ritenuto che, se l’Europa non riusciva a gestire con successo una crisi come quella greca, a maggior ragione non sarebbe stata in grado di affrontare quella di Paesi con debito maggiore.
Come ha scritto Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, le politiche di austerity promosse dagli Stati europei sono un grave errore perché fanno decrescere la domanda e rallentano la crescita. Attivare un nuovo motore interno dello sviluppo economico europeo, sul modello del Job act di Obama, significa che lo Stato deve rientrare nella produzione, spingendosi fino alla nazionalizzazione delle banche, facendo crescere l’occupazione, riducendo l’orario di lavoro, aumentando i salari, fornendo maggiori servizi, potenziando ricerca, formazione, tecnologia, scuola e università, con investimenti su green economy e conoscenza, e difendendo il carattere pubblico di beni comuni quali acqua, energia, servizi alla persona, istruzione, sanità, trasporti, ecc. I fondi vanno reperiti dai titolari di grandi patrimoni, anche immobiliari, e da chi le tasse non le paga, con una maggiore imposizione fiscale su transazioni e rendite finanziarie, la riduzione dell’assurda spesa militare, i tagli ai costi della politica, l’Ici sulle attività lucrative della Chiesa, il recupero e la tassazione dei capitali occultati all’estero, l’utilizzo del surplus di riserve auree di Bankitalia. Monti, però, sta andando nella direzione opposta.
Ci sono due possibili strade da seguire. La prima è che, siccome è praticamente impossibile in tempi brevi aumentare le esportazioni in misura sufficiente a riequilibrare i deficit commerciali, i Paesi in crisi dovrebbero ridurre drasticamente le importazioni. Ciò presuppone una riduzione anche molto violenta della domanda interna, che ha l’effetto di deprimere l’economia, e quindi di ridurre le entrate fiscali, accrescendo così il deficit statale. L’altra strada implica che, se vogliamo che l’Europa e l’euro sopravvivano, è necessario che chi ha beneficiato di questi squilibri contribuisca al loro riequilibrio molto più di chi ci ha rimesso, proprio perché ha più risorse per farlo. Bisogna, dunque, ottenere prioritariamente uno “standard retributivo europeo”, che consentirebbe di interrompere la competizione salariale in atto tra i paesi della Ue. Le tre parole chiave annunciate dal governo Monti – rigore, crescita, equità – sono state espresse con rilievo diseguale, e sempre in chiave iperliberista: molto rigore senza discontinuità con le misure prese dal governo Berlusconi, poca crescita e scarsa equità.
Cfr. gli altri articoli sulla “manovra Monti” e sulla crisi economica pubblicati su questo stesso numero di LucidaMente:
· Giuseppe Licandro, Serviranno all’Italia “lacrime” e “sangue”?
· Tullio Marra, Partitocrazia: tocca ai cittadini
· Ezio Pelino, Monti non tocca le caste
· Rino Tripodi, Tasse e sacrifici: madonna ministra Fornero piange, la Madonna cattolica mai
· Viviana Viviani, Appelli tasse, Bagnasco risponde
L’immagine: appare forse più disperato (o sbalordito?) che allietato il san Giuseppe de La natività (1650, olio su tela, Monaco di Baviera, Alte Pinakothek) di Nicolas Poussin (Les Andelys, 15 giugno 1594 – Roma, 19 novembre 1665): un po’ come i cittadini italiani per il “regalo di Natale” di Monti, del quale si parla nel presente articolo.
Franco Pinerolo
(LucidaMente, anno VI, n. 72, dicembre 2011)
Comments 0