Nella gara al ribasso i grandi marchi delocalizzano la produzione, risparmiando così sugli stipendi dei lavoratori. La denuncia della Campagna abiti puliti
In questo periodo di saldi, ormai agli sgoccioli, lasciarsi andare allo shopping compulsivo è una tentazione quasi irresistibile ed è un attimo uscire dai negozi carichi di vestiti, come nei migliori film americani di serie Z. E, se proprio ci rimorde la coscienza, viene facile metterla a tacere impugnando lo scontrino, testimone di prezzi stracciati. Ma quando acquistiamo un nuovo capo, sappiamo qual è il suo costo reale e in base a quali parametri viene fissato il prezzo di vendita? Sulla pelle di quante persone compriamo un indumento low cost?
Sono domande come queste, magari per alcuni passibili di pedanteria, che ci potremmo porre quando stiamo facendo spese. Allora, senza fare troppo la morale, lasciamo la parola ai dati. Secondo il rapporto Salari su misura 2019: lo stato delle retribuzioni nell’industria globale dell’abbigliamento, stilato il 5 giugno scorso dalla Campagna abiti puliti, i principali marchi non hanno portato a termine l’impegno di garantire ai loro lavoratori un salario vivibile. Che cosa si intende? Lo stipendio minimo è quello che permette al dipendente di provvedere ai pasti per se stesso e per la famiglia, di pagare l’affitto, le visite mediche, i vestiti, i trasporti, l’istruzione e di mettere da parte un po’ di denaro per le spese impreviste. Ci si riferisce principalmente a coloro che sono impiegati nella catena di fornitura dei brand e quindi provenienti da Paesi di Africa, America centrale, Asia ed Europa orientale. Nell’ambito di un precedente studio, le griffe si erano infatti impegnate ad assicurare ai loro dipendenti una paga vivibile ma, a cinque anni di distanza, le promesse non sono state mantenute.
Anna Bryher, autrice del rapporto, ha dichiarato: «A cinque anni di distanza dalla nostra precedente indagine, nessun marchio è stato in grado di mostrare alcun progresso verso il pagamento di un salario vivibile. La povertà nell’industria dell’abbigliamento sta peggiorando. È una questione urgente. Il nostro messaggio ai brand è chiaro: i diritti umani non possono aspettare e i lavoratori che realizzano i capi venduti nei nostri negozi devono essere stipendiati abbastanza per vivere con dignità».
Il rapporto prende in esame 20 grandi marchi della moda, tra cui Adidas, Decathlon, H&M, Nike, Zalando, Zara. Secondo lo studio della Clean clothes campaign, di cui la Campagna abiti puliti rappresenta la sezione italiana, sulla carta l’85% delle aziende si è impegnato per mantenere il salario minimo, ma nella pratica non ha fatto nulla a tale proposito. Dei 20 marchi, 19 non sono riusciti a dimostrare che i loro dipendenti percepiscono una paga vivibile. L’unico a fare eccezione è Gucci, che ha potuto provare come per una minima parte della produzione italiana la retribuzione sia sufficiente per vivere in alcune zone del Sud e Centro Italia, questo grazie alle trattative salariali nazionali. Per quanto riguarda invece Stati come il Bangladesh e l’Etiopia, i salari sono meno di un quarto della paga dignitosa, mentre in Romania e in alcuni Paesi dell’Europa orientale il divario è ancora più grande (vedi Romania: salari da fame. Meno di un sesto del salario dignitoso). Lì i lavoratori guadagnano solo un sesto di quanto necessario per vivere bene e mantenere una famiglia. La conseguenza è che i lavoratori sono poi costretti a stare nelle baraccopoli, malnutriti e indebitati, e spesso, anche con ore e ore di straordinario, non possono permettersi di mandare i figli a scuola.
«È un dato di fatto che chi produce quasi tutti gli abiti che compriamo vive in povertà, mentre le grandi marche si arricchiscono grazie al suo lavoro», afferma Deborah Lucchetti della Campagna abiti puliti. «È tempo che i marchi adottino misure efficaci di contrasto al sistema di sfruttamento che hanno creato e da cui traggono profitto». A questo punto la domanda sorge spontanea: che cosa si può fare? Quali misure dovrebbero adottare i brand?
«Se i marchi fossero davvero impegnati a pagare un salario dignitoso, dovrebbero passare dalle parole ai fatti, scegliendo un parametro di riferimento credibile, informando i fornitori e aumentando i prezzi di acquisto in coerenza», prosegue la Lucchetti. «Dovrebbero iniziare subito con i cinquanta maggiori fornitori e rendere pubblici i libri paga, a dimostrazione che ciò stia realmente accadendo. È una questione affrontabile, basta mettere mano alla redistribuzione della catena del valore e pagare di più i lavoratori». Il nocciolo del problema, infatti, risiede principalmente nel modello di business dominante, che spinge Paese contro Paese e fornitore contro fornitore, in una gara globale al prezzo più stracciato. Per questo motivo i lavoratori non riescono a uscire dal loro stato di povertà e le aziende hanno così la libertà di scegliere tra economie a basso costo e basso salario e in questi mercati i marchi possono dettare prezzi, quantità e qualità.
Sul medesimo argomento, in questo stesso numero di LucidaMente, si legga Arianna Mazzanti, «Vestiti fatti col sangue dei lavoratori».
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XIV, n. 164, agosto 2019)