Come afferma Simone Martinetto, «la fotografia è un mezzo che ha grandissima ambiguità: è sempre sospesa tra verità e costruzione»
Nel 2013 l’Oxford Dictionary ha scelto Selfie come parola dell’anno. Il termine, di origine anglosassone, indica una foto fatta a sé stessi. Questo genere di fotografia ha invaso ormai la nostra vita diventando una vera e propria moda (vedi anche Selfie: moda o mania? Malattia!). Sono davvero pochi coloro che hanno saputo resistere – e non solo tra i giovani. Ma perché è così importante per noi fotografarci?
La psicologia tende a parlare di narcisismo o insicurezza.Secondo gli esperti, dunque, ci piacciamo troppo. O troppo poco. Della seconda opinione sono i ricercatori Jesse Fox e Margaret C. Rooney, i quali hanno evidenziato, in un articolo pubblicato sulla rivista Personality and Individual Differences, che la pratica cronica di scattarsi delle foto è probabilmente connessa a gravi problemi di insicurezza. A ciò sembrerebbe quindi collegata la ricerca di approvazione dalla massa, ottenibile facilmente tramite i famosi “mi piace” sui social network. Simone Martinetto, fotografo professionista e responsabile della mostra Me. Dall’autoritratto al selfie, tenutasi a maggio presso il Centro studi di Didattica delle Arti a Bologna, parla della fotografia come «sospesa tra verità e costruzione».
Fotografarsi, infatti, è sempre un atto «ambiguo», sospeso tra il volersi svelare o nascondere. Se da una parte esiste la necessità di esprimere la propria personalità, ciò che prevale è la tendenza a vendere un’immagine. La più bella possibile, la più adatta al nostro scopo. Ed è interessante notare che in realtà questa “manipolazione” della figura di sé stessi è una pratica molto antica, non di certo nata con la fotografia. James Hall, autore e docente statunitense,nel libro L’autoritratto. Una storia culturale (Einaudi), analizza proprio questa pratica sociale.
Il saggista tratta, tra i numerosi esempi, del faraone Akhenaton. Questi, vissuto nel XIV secolo a.C., ordinò al proprio ritrattista di farlo emergere come orgoglioso del ruolo raggiunto: fu dunque rappresentato pingue e vestito in modo lussuoso. Ciò che il soggetto si prefigge tramite la commissione di un ritratto è infatti mostrarsi agli altri secondo una certa chiave di lettura, preventivamente scelta. Non a caso, subito dopo la Rivoluzione francese, ci fu un boom di ritratti familiari commissionati da borghesi. La borghesia voleva sottolineare il raggiungimento di quel ruolo sociale che era stato per secoli dell’aristocrazia mostrandosi, come i nobili, degna di essere ricordata dalla storia. L’egalité si dimostrò anche in questo. E non è oggi uguaglianza la parola più diffusa e abusata?
Siamo nell’era della “democrazia tecnologica” e la sociologa spagnola Amparo Lasén afferma che «l’autoritratto si è convertito da pratica minoritaria e artistica a pratica generalizzata». Secoli fa era necessario il lavoro di esperti per immortalare ricordi, oggi basta un tocco sul nostro smartphone. Questa semplicità di azione ha sicuramente favorito la produzione di foto. Ciò che però sorprende è che siamo più spinti a puntare una fotocamera verso noi stessi che verso il mondo.
La fotografia nacque originariamente come proiettata verso oggetti esterni. Basta un confronto con qualche anno fa per capire quanto sia cambiata la nostra percezione in materia. Erano davvero rari i telefoni cellulari che avevano una fotocamera interna. I telefoni erano perlopiù dotati di fotocamera esterna e non si rischiava di entrare nella spirale della cosiddetta Selfie Syndrome, ossia la necessità di scattarsi foto molto spesso. «Il mondo ora contiene più fotografie che mattoni e sono, sorprendentemente, tutte diverse» scrisse John Szarkowski, storico direttore del Museum of Modern Art (MoMA) di New York. Ovviamente, lo scrisse prima dell’era dei selfie, altrimenti di certo avrebbe omesso l’ultima parte della frase. Il paradosso dell’autoscatto è proprio qui.
Nel momento in cui si vorrebbe rappresentare al meglio la propria identità, ci si adegua a quella di milioni di altre persone, le quali, esattamente come noi, stanno sorridendo alla propria fotocamera. Di conseguenza, le foto che siamo abituati a vedere non sono tutte diverse, ma anzi tutte uguali. Il selfie diventa la maschera più bella, tra mille altre cestinate, che il soggetto sceglie per rappresentarsi. Una maschera quindi che non lo distingue, ma lo accomuna a tutti gli altri. Dov’è quindi la nostra unicità? Probabilmente non nei nostri profili social. La speranza è che la nostra identità – se esiste – sia nascosta solo nelle foto e si dimostri nella vita (vedi anche Proposta: un’estate libera dall’alienazione chiamata Internet).
Valentina Paganelli
(LucidaMente, anno XII, n. 139, luglio 2017)