Dopo molti mesi di manifestazioni, disordini e più di cento morti, il Paese si dovrebbe avviare verso un regime democratico
Il video della giovane donna che incita la folla in piedi sul tettuccio di un’automobile, di fronte a una caserma militare di Khartoum, ha fatto il giro del mondo. Era l’8 aprile e in Sudan stava crescendo uno dei movimenti di massa più imponenti che la storia del paese ricordi.
Tralasciando le speculazioni dei mezzi d’informazione occidentali, alla ricerca di un’immagine-simbolo da vendere nel mercato mass e social mediatico, i fotogrammi in cui la «nubian queen», come è stata in seguito rinominata la studentessa Alaa Salah, si erge davanti alla folla, sono veicolo di un pregnante significato politico. Nel paese, a schiacciante maggioranza musulmano-arabofona e retto da un regime autoritario appoggiato dagli islamisti, è una giovane donna a risaltare, avvolta in un abito tradizionale e attorniata da una schiera di manifestanti, che scandiscono cori con lo smartphone fra le mani. Il thobe, la lunga veste di colore bianco da lei indossata, costituisce un potentissimo richiamo alle formidabili lotte ingaggiate dalle donne sudanesi contro la precedente dittatura militare al potere fra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, mentre i canti da lei intonati assieme agli altri dimostranti, che nel frattempo provvedono a diffonderli in diretta sul web, si rivolgono contro il regime di Omar Al-Bashir e contro la commistione autoritaria di politica e religione. «Thawra!», “rivoluzione” in arabo, è il grido collettivo di una generazione che preme per un cambiamento sociale e culturale, oltre che politico.
Il Sudan è uno dei paesi più poveri del mondo e la crisi economica, acuitasi a partire 2011 in seguito alla secessione della sua regione meridionale, il Sud Sudan, ha aggravato la situazione. In tale territorio, infatti, sono situate le maggiori riserve petrolifere della zona e la scissione ha avuto come unica conseguenza la creazione di due stati, il Nord, a maggioranza musulmana, e il Sud, a maggioranza cristiana, in permanente stato di guerra civile. Entrambi ben più poveri di prima. A detenere il potere politico era, fino a pochi mesi fa, l’entourage del presidente Omar Al-Bashir, che regge da trent’anni un paese scosso dai continui conflitti intestini, fra cui la devastante crisi del Darfour, paragonata per la sua crudeltà a un vero e proprio genocidio.
In tale contesto disastroso, la società civile ha iniziato la propria battaglia, riuscendo a costruire un movimento di massa senza precedenti e a raggiungere il proprio obiettivo principale: la destituzione del presidente in carica. Le manifestazioni, iniziate dal mese di dicembre 2018 in tutto il paese, sono culminate nella rimozione di Al-Bashir da parte di un gruppo di militari, con un vero e proprio golpe messo in atto all’alba dell’11 aprile. Il suo arresto non è stato, tuttavia, seguito da un reale processo di rinnovamento e il vuoto di potere è stato riempito dai vertici dell’esercito, che, contestati dalla piazza, hanno optato per la formula preferita dai vari regimi che si sono susseguiti nella storia del paese: quella della repressione, che, culminata nei massacri di inizio giugno, ha lasciato sul campo centinaia di morti e feriti. Nonostante il perpetrarsi delle violenze da parte dell’esercito, il movimento non si è lasciato abbattere. I negoziati per la formazione di un governo civile sono proseguiti sotto la pressione dei manifestanti, che, accanto alle rivendicazioni di rinnovamento e democrazia, hanno domandato anche giustizia per i caduti. A raccogliere le istanze della piazza è stata la Sudanese professionals association, un sindacato trasversale che rappresenta gli interessi di differenti categorie sociali all’interno del paese.
L’associazione costituisce, inoltre, la principale promotrice della Declaration of freedom and change, carta sottoscritta l’1 gennaio 2019 da ventidue forze della società civile e alla base delle rivendicazioni del movimento. Sono state, in primo luogo, le forze vive della società sudanese a porsi come protagoniste della mobilitazione, senza delegarne la guida ad alcuna forza collusa con il potere politico o religioso, evitando così necrogeni conflitti fra fazioni. Inoltre, il protagonismo femminile e quello giovanile sembrano aprire a una pagina nuova nella storia del Sudan e non solo, costituendo un vero e proprio esempio di risveglio dal basso di un popolo da troppo tempo silente.
Come analizzato nel nostro stesso articolo sul recente caso algerino, cui il movimento sudanese fa esplicito richiamo, sono le fasce della società più giovani e dinamiche a guidare mobilitazioni intenzionate a consegnare ai libri di storia regimi ormai insostenibili, cercando di imparare dai fantasmi delle fallite “primavere arabe”. Rivendicazioni e piattaforme politiche inedite e innovative, che possono costituire un modello per le altre popolazioni dell’area, affamate di speranza e di futuro. Molto dipenderà da come evolverà l’accordo siglato lo scorso 3 luglio tra militari e l’opposizione. Esso prevede un periodo di transizione di tre anni e tre mesi gestito da un consiglio formato da cinque militari e sei civili. Tale organo sostituirà la giunta militare attualmente al potere e dovrà riportare la pace tra i vari gruppi armati presenti nel paese in vista di future elezioni e di un compiuto regime democratico.
Nicola Lamri
(LucidaMente, anno XIV, n. 164, agosto 2019)