La repressione di al-Sisi, fra sequestri e incarcerazioni, mette in ginocchio qualsiasi opposizione. Ma c’è ancora chi alza la testa
Ahmed Abdallah sorride spesso e ha gli occhi pieni di speranza. Parla di cambiamento, giustizia, futuro. Non sembra lo stesso uomo arrestato e detenuto ingiustamente nel carcere del Cairo sotto uno dei regimi, quello egiziano, meno inclini al rispetto e alla tutela degli uomini. Eppure è proprio lui: è il presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf), l’organizzazione non governativa per i diritti umani che sta offrendo consulenza ai legali della famiglia Regeni.
Il 25 aprile del 2016 i corpi di Sicurezza nazionale hanno fatto irruzione in casa sua alle tre del mattino e l’hanno prelevato con l’accusa di adesione e istigazione al “terrorismo”. In prigione è stato minacciato, percosso, gli sono state puntate armi alla testa, ha trascorso periodi in isolamento e vissuto in condizioni pietose per cinque mesi, tutto per aver richiesto al governo informazioni sulla morte del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni. I casi di sequestri e sparizioni in Egitto sono all’ordine del giorno e per questi Abdallah si batte da anni con tenacia e coraggio, consapevole che essere imprigionati (seppur senza motivo) e uscire indenni dalla cella è uno degli scenari più rosei. La sorte toccata all’appena ventottenne Giulio, torturato per sette giorni e ucciso dopo interminabili agonie, ne è dimostrazione (Omicidio di Giulio Regeni, Wikipedia).
Con accuse simili a quelle di Abdallah, è stato incarcerato pure un suo collega: Ibrahim Metwaly, anche lui impegnato nella risoluzione del caso Regeni come consulente legale della famiglia. L’avvocato è detenuto dal 10 settembre 2017 a Torah, una prigione di massima sicurezza tristemente nota per gli abusi e le torture che avvengono al suo interno.
Ma non è necessario esporsi apertamente contro il governo egiziano e la sua condotta per essere passibili di arresto: Mahmoud Abou Zeid, fotogiornalista conosciuto col soprannome Shawkan, è stato trattenuto per aver documentato nel 2013 una manifestazione dei Fratelli musulmani [organizzazione politico-islamista internazionale, per molti integralista e vicina al terrorismo, ndr]. Sembra surreale scontare cinque anni di prigione per alcuni scatti fotografici, ma lo è ancor di più che Shawkan debba ad oggi scontarne altri cinque di libertà vigilata. Una trentina di persone sono state condannate a pene che oscillano dai sei mesi ai sei anni per aver sventolato durante un concerto una bandiera arcobaleno, simbolo dei diritti Lgbt. E l’elenco potrebbe continuare ancora per molto: basti considerare che, secondo un report di Human rights watch (Hrw), solo nel mese di novembre sono stati 40 i fermati fra attivisti, avvocati e difensori dei diritti umani (Egitto, continua la repressione contro gli attivisti per i diritti umani: “Il governo vuole annullare la società civile”, Tpi).
Le accuse sono quasi sempre le stesse: attività sovversive, diffusione di notizie false contro il governo, terrorismo. Al di là della loro fondatezza – che comunque non è mai verificata, essendo tali imputazioni strumentali a neutralizzare qualsiasi manifestazione di dissenso verso il presidente Abd al-Fattah al-Sisi – ai condannati non è concesso vedere i propri legali né ottenere un processo immediato (che sicuramente li scagionerebbe), ma anzi sono interrogati con metodi brutali, volti a ottenere false confessioni.
Ahmed Abdallah descrive una situazione che, nel quadro della libertà di pensiero ed espressione del mondo occidentale, è difficile concepire (vedi anche Oltre Regeni: cos’è l’Egitto per gli stranieri). Eppure non c’è rassegnazione nei suoi toni, né autocommiserazione: ciò che egli chiede all’Europa è di sfruttare la sua influenza ed esercitare maggiori pressioni sul governo egiziano. Il tutto partendo dalla ricerca di verità per il nostro connazionale – così come la Turchia è riuscita a fare per il giornalista ucciso Jamal Khashoggi (Mistero Khashoggi, il giornalista scomparso che imbarazza l’Arabia Saudita, Il Sole 24 Ore) – e continuando con tutte le altre vittime del regime militare di al-Sisi. Abdallah si è fatto 175 giorni di galera chiedendo giustizia per Giulio; adesso tocca all’Italia mobilitarsi per quella che non è la prima né l’ultima delle sparizioni forzate in Egitto. Non è accettabile in alcun caso che chi lotta per la libertà sia abbandonato, soprattutto per battaglie che spetterebbe a tutti combattere.
Le immagini: Ahmed Abdallah, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf); commemorazione di Giulio Regeni organizzata dal parlamentare britannico Daniel Zeichner.
Alessia Ruggieri
(LucidaMente, anno XIV, n. 157, gennaio 2019)