Un capitolo del saggio “Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell’Italia” (Marsilio) di Massimiliano Panarari e Franco Motta espone alcune interessanti tesi sulle conseguenze del mancato sviluppo del protestantesimo in Italia
Se l’Italia fosse divenuta (un po’) protestante…, si chiede il nostro direttore Rino Tripodi in un proprio contributo pubblicato sul recente numero (27, gennaio-febbraio 2014, pp. 49-52) del bimestrale cartaceo NonCredo. La cultura della ragione. Per gentile concessione della rivista che lo ha ospitato, lo riportiamo di seguito, per intero.
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L’Italia è un paese irrimediabilmente lontano dagli standard che caratterizzano le mature democrazie occidentali. I “vizi” li conosciamo tutti: caste, consorterie, oligarchie, corporazioni; familismo senza morale; prevalenza del tornaconto particolare e individuale sui legittimi interessi comuni; sguardo rivolto solo al vantaggio immediato; diffidenza verso la virtù; indifferenza verso torti/ragioni, giusto/sbagliato; mancata valorizzazione, quando non ostacolo al merito; volgarità e populismo; conformismo e ipocrisia; sospetto verso le novità e le riforme. Si tratta di peculiarità negative che, quindi, ormai rientrano in una persistenza storica di lunga durata (modello braudeliano della longue durée), ma, di certo, non costituiscono una sorta di “genio nazionale” o una condanna “genetica”.Al contrario, una open society – secondo Karl Popper – si caratterizza per riduzione delle disuguaglianze, mobilità sociale, circolazione delle idee, affrancamento dai dogmatismi.
Perché l’Italia è civilmente “arretrata”
Massimiliano Panarari e Franco Motta esplorano le cause dell’arretratezza italiana nel pregevole e stimolante saggio Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell’Italia (Marsilio, Padova, 2012, pp. 224, € 16,00; vedi Quei «virtuosi» che avrebbero potuto salvare l’Italia), la cui uscita è stata salutata da forti polemiche seguite alle critiche provenienti da destra, quali quelle di Corrado Ocone sul Corriere della sera, di Leonardo Rossi sul Secolo d’Italia o di Marcello Veneziani su il Giornale, nei confronti delle tesi della pubblicazione (vedi Se la stampa “moderata” non legge con attenzione…). Le radici della «mancata modernizzazione» italiana, secondo i due autori, risalgono all’alba dell’Età moderna, nel XVI secolo, allorquando da un lato la penisola, col Rinascimento, perviene a uno dei vertici della storia della civiltà umana, dall’altro inizia la propria parabola discendente. Un canto del cigno non più riascoltato.Accanto alla debolezza culturale e civile della borghesia italiana, tra le ragioni della mancata modernizzazione italiana vi è la presenza della Chiesa romana. Senza troppi sforzi, possiamo notare come certi meccanismi ideologici cattolici (diffidenza nei confronti dei diritti individuali e delle istanze di libertà; visione sociale basata non sulla cittadinanza, ma sulla famiglia; identificazione e non separazione tra peccato, morale, reato) caratterizzino ancora oggi il cosiddetto “italiano medio”, pervadendo la (problematica) convivenza civile.
Nell’Introduzione. Un’Italia incompiuta, «minoranza» è definita da Panarari e Motta «un gruppo articolato e composito di individui uniti da un’identità culturale comune, che può esprimere la volontà di operare in funzione di un progetto di ordinamento sociale alternativo a quello dominante». In Italia esse sono esistite. Nei sei capitoli del libro troviamo descritti e analizzati, in successione: gli eretici italiani del Cinquecento nelle loro differenti declinazioni religiose, gli scienziati sperimentalisti della scuola galileiana nel XVII secolo, i giacobini degli anni del Triennio rivoluzionario 1796-99, gli igienisti della stagione positivista tardo-ottocentesca, i social-riformisti del movimento cooperativo e i liberali di sinistra che, come Piero Gobetti e Carlo Rosselli, guardavano alle energie progressiste del movimento operaio.Tali gruppi «virtuosi» avrebbero potuto rendere l’Italia un paese “normale” nella cultura, nella religione, nella scienza, nella politica. Se i loro progetti furono sconfitti, più che per intima debolezza, avvenne a causa di lotte senza quartiere (oggi spesso dimenticate) combattute contro di loro dai potenti fautori della conservazione.
Il protestantesimo italiano del Cinquecento
Il primo capitolo del libro è appunto dedicato a Gli eretici italiani del Cinquecento, ovvero dell’oblio di una possibile altra Italia religiosa, ed è opera di Franco Motta. Tanto per sgombrare il cambio da pregiudizi derivanti dalla damnatio memoriae e dalla repressione della Chiesa, il movimento riformatore italiano era stato molto forte e diffuso nella Penisola e il Concilio di Trento (1545-1563) fu tutt’altro che unitario e lineare. I protestanti italiani furono uomini e donne, mercanti e gente del popolo, preti e monaci, e appartenevano anche all’aristocrazia (si pensi alla corte di Renata di Francia a Ferrara) e ai vertici ecclesiastici. E «furono probabilmente la prima minoranza attiva della storia moderna italiana». Nonostante la repressione e la volontà di cancellarne ogni traccia, sono “spie” della diffusione del protestantesimo in Italia le traduzioni in lingua italiana della Bibbia (tra le quali ricordiamo, in particolare, quella di Giovanni Diodati, edita a Ginevra nel 1607), le quarantamila copie vendute nella sola Venezia di un testo di riferimento della Riforma italiana quale il Beneficio di Cristo (opera di Benedetto Fontanini e Marcantonio Flamini, edita nel 1540, immediatamente messa all’Indice, a tal punto che solo nell’Ottocento si troverà a Cambridge una copia superstite), vari carteggi ed episodi, quali il fatto che nel 1551, a Messina, il popolino si rifiutava di reggere la statua della Vergine… Tra i protestanti italiani del tempo si possono distinguere i riformati veri e propri, fedeli alla lettera del luteranesimo e del calvinismo, e gli “eretici”, come anabattisti, antitrinitaristi, erasmiani.Per tracciare il quadro complessivo di tali gruppi risulta fondamentale ancora oggi la celebre ricerca di Delio Cantimori Eretici italiani del Cinquecento (Sansoni, Firenze, 1939), più volte ripubblicata.
Le caratteristiche dei movimenti “eretici” italiani
Il denominatore comune che caratterizza i riformatori italiani del periodo è costituito dalla fiducia, a volte davvero ingenua e commovente, che la misericordia divina sia immensa e che la salvezza dell’anima sia una possibilità ampiamente garantita da Dio a tutti. Predomina, dunque, un certo spiritualismo, molto diverso dal rigore di Lutero e Calvino. La figura più carismatica degli “spirituali” è quella di uno spagnolo, Juan de Valdés, nato intorno al 1505, che giunge in Italia nel 1531, operando a Napoli come una sorta di asceta fino alla morte (1541). Tra gli altri nomi più significativi, oltre ai già citati Flamini e Fontanini, si possono ricordare Bernardino Ochino, Pietro Martire Vermigli, Pietro Carnesecchi, Vittore Soranzo, Giulia Gonzaga, nonché il cardinale inglese Reginald Pole, operante a Viterbo, e un altro cardinale, Giovanni Morone. Entrambi gli alti prelati avranno un peso nel Concilio di Trento e “rischieranno” di diventare papi nel 1549 e nel 1555. A loro va accostato anche il cardinale Gasparo Contarini, che nel 1541 tenta – senza successo – una riconciliazione con i luterani a Ratisbona e viene poi costretto a difendersi dal sospetto di eresia.La maggioranza dell’élite protestante sceglie la strada del nicodemismo, cioè, scrive Motta, «pratiche devote in pubblico, convinzioni eretiche in privato».
Tra il 1550 e il 1555 la parabola della Riforma italiana volge al termine: si spegne non solo la speranza di una rigenerazione della Chiesa cattolica, ma anche il nicodemismo. E, negli anni Sessanta, ecco l’aperta repressione.Tra le vittime, spesso uccise con brutalità e sevizie varie, l’enigmatico Giorgio Rioli, detto Giorgio Siculo, Fanino Fanini, Giacomo Bonello e Giovanni Luigi Pascale, mentre le colonie valdesi della Calabria settentrionale furono sterminate tra il 1561-1570 mediante una sorta di crociata albigese.
Alla base del mancato successo del disegno di rinnovamento della Chiesa cattolica in Italia da parte di una élite che poteva contare su un crescente consenso popolare, per non dire che nelle sue fila militavano vescovi e cardinali, si possono ritrovare sia cause “teologiche” che sociopolitiche. Sul piano teologico, i gruppi riformatori italiani puntavano su posizioni intermedie, che verranno sconfitte dalla nettezza del canone dottrinale tridentino, ma soprattutto non mettevano in discussione «l’ordine sacro, cioè la separazione tra clero e laici, e le strutture di privilegio e di potere che esso giustificava», compreso l’esercizio della sovranità. Pertanto, sul piano sociale e politico, fallì l’aggancio con le aristocrazie dominanti, blocco che, invece, avvenne in Germania, Olanda, Svizzera, Inghilterra. Del resto, gli stessi ceti dirigenti degli antichi stati italiani non colsero l’occasione, tant’è vero che le repubbliche di Genova e Venezia, il duca di Toscana, i Gonzaga e gli Este dapprima ospitarono gli eretici, ma, in seguito, di fronte alla successiva repressione, non si opposero o addirittura ne furono complici.Ciò avvenne sia per debolezza politica sia – soprattutto – per calcolo: le carriere ecclesiastiche erano uno sbocco naturale di moltissimi nobili e la Chiesa cattolica «era un bacino di prebende e di ruoli di prestigio», una «dinamica di contiguità e sovrapposizione fra struttura ecclesiastica e ceti dominanti» che contribuì «a rendere il protestantesimo un’opzione religiosa meno appetibile che altrove».
Le conseguenze della sconfitta
La mancata affermazione della minoranza ereticale fu alla base di gravi effetti: una lunga stagione di intolleranza e di esclusione di ogni dissidenza; attenuazione di un’etica individuale a favore di un’etica governata dai precetti della Chiesa; stretto blocco conservatore Chiesa-potere politico; compresenza di due diritti nella sfera pubblica (ius canonicum, della Chiesa, e ius civile, dello Stato); preminenza della carità all’interno di un sistema solidaristico nel quale però l’altra faccia è il paternalismo, la deresponsabilizzazione e la sottomissione; la coercitività di gruppo e famiglia a scapito del vincolo comunitario. Forse ancora peggiori furono le conseguenze sul piano religioso e spirituale: si affermarono la disaffezione dalla fede come vera esperienza interiore spirituale, uno scetticismo di fondo e – tra gli strati popolari – la superstizione.Mentre nelle altrettanto cattoliche Francia e Spagna le locali Chiese erano vincolate alla Corona, che ne controllava anche la nomina dei vescovi e clero, in Italia la Chiesa del papa selezionava per intero il clero e, anzi, vigilava su governi e classi dirigenti. Tendenza che ancora oggi – ci sembra – sia presente nelle alte gerarchie vaticane.
Ad altri capitoli di Elogio delle minoranze Rino Tripodi ha altresì dedicato Se in Italia avessero avuto più spazio i riformisti…
Le immagini: la copertina del libro di Panarari e Motta e i suoi autori; varie pubblicazioni dedicate all’Italia protestante; la storica trasmissione della Rai Protestantesimo.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno IX, n. 99, marzo 2014)
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