«[…] poi procùrati un piatto remo
e allontanati da quella terra, finché
non raggiungerai popoli che non conoscono il mare
e non mangiano cibi conditi di sale,
che non sanno di rosse fiancate di navi
né delle loro forti ali, i lisci remi.
E verrà un segno evidente:
quando un viandante vedendoti ti chiederà
se quello sulla tua spalla sia un ventilabro,
pianta sulla terra il piatto remo
e sacrifica al dio Poseidone […]
[…] allora potrai tornare a casa, e ancora
sacrifica a tutti gli déi immortali.
Una morte silenziosa e serena ti verrà
dal mare, vecchio e sazio di giorni;
tutti saranno gioiosi di fronte alla tua pietra,
è la verità».
Così s’intersecano storie individuali e storie di popoli…
Enea nell’Ade – L’incrocio per eccellenza è quello di Virgilio, che nel VI canto dell’Eneide lancia Enea in cerca del padre, per conoscere i tempi futuri suoi e dei Teucri; i segreti pitagorici sono nascosti in eterno nell’Ade per rinnovarsi eternamente sulla terra: è dunque smentito il «pulvis et umbra sumus» di Orazio, è superato il rito d’addio di Catullo al fratello «ut te postremo donarem munere mortis». Le risposte dei morti alle parole di Enea sono tante: il silenzio rancoroso di Ifianassa nel bosco del pianto, il lamento di Palinuro o di Dèifobo dietro le masse di ombre che «come foglie strappate alle selve» avanzano nella notte profonda; infine, le verità di Anchise, specchio universale del cammino del figlio. Egli non rivela soltanto i destini di Roma, ma spiega la misteriosa reincarnazione delle antiche ombre, dopo aver bevuto nella dimenticanza la via della loro purificazione, dato che «ciascuno patisce i suoi Mani»:
«Le anime che il fato conduce a nuovi
corpi bevono sull’onda del fiume Lete
acque incuranti e lunghi oblii».
L’itinerarium di Dante – Questi “sensi” cosmici possono più riprodursi nei versi post-classici? Solo Dante ha osato confrontarsi in una sfida così grande; nella storia della nostra letteratura italiana, solo lui ha osato ancora d’incrociare il destino e il senso della sua vita con i segreti del mondo dei morti. E le ombre, ancora una volta, hanno risposto, hanno “detto parole” anche quando avrebbero preferito nascondere ai viventi la loro storia, come Guido di Montefeltro:
«S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo».
Ma Dante può trovare questo filo rosso perché le sue guide sono il passato (Virgilio, di cui “tocca” persino un verso: «Manibus, oh, date lilia plenis!») che vibra con presente e futuro, Beatrice, l’alter Christus:
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
Beatrice deve condurlo dentro la forma di candida rosa che è la meta finale del suo itinerarium mentis in Deum, il Paradiso, e dove l’ombra dell’avo Cacciaguida deve rivelargli la missione della sua vita per l’umanità.
Pascoli e Montale – E i moderni? Sono degni di ascoltare ancora gli echi delle ombre, di “ricevere senso” da loro? Romano Luperini e altri pensano di no, o almeno negano che si possa più ascoltare un significato esistenziale universale da loro; ma è pur vero che il dialogo ha continuato a fluire ininterrotto, il soffio balbettante materno che ascoltava Giovanni Pascoli come in un sogno:
«risentii la voce smarrita
che disse in un soffio Zvanì…».
Ma non è proprio quel soffio-balbettio che, dalle profondità della terra, intercede con insistenza per il piccolo Giovanni, perché continui nonostante tutto a vivere? Xenia è il libro con cui il vecchio Eugenio Montale dialoga con la “Mosca” morta, ma non conversa con un ricordo: hanno “organizzato” tutto lui e Drusilla Tanzi, lei imprevedibilmente riuscirà a mandargli ancora messaggi dall’aldilà:
«Mi abituerò a sentirti o a decifrarti
nel ticchettìo della telescrivente,
nel volubile fumo dei miei sigari
di Brissago».
Forse Montale, come Foscolo, di fatto “parla da solo”, come se ricordasse e basta, ma la sua intenzione è diversa, “fischia” il “segno di riconoscimento” con Drusilla perché non c’è più differenza tra morti e vivi, «che tutti siamo già morti senza saperlo». Eugenio sente che lei è presente «forse più di prima», sente che «in due noi siamo una cosa sola», e alla fine riesce ad ascoltarla davvero per poter continuare anche lui il loro «lungo viaggio»:
«La tua parola stenta e imprudente
resta la sola di cui mi appago».
L’immagine: Odisseo e Tiresia nel regno dei morti (Vaso greco del IV sec. a.C.).
Guido Monte
(LucidaMente, anno III, n. 12 EXTRA, 15 luglio 2008, supplemento al n. 31 dell’1 luglio 2008)