“Un vecchio foglio” è uno dei racconti meno noti dello scrittore di Praga. È impressionante come il testo possa essere interpretato quale prefigurazione dei disastri prossimi venturi dell’immigrazione selvaggia.
Com’è noto a tutti, uno dei più grandi geni della letteratura di tutti i tempi, l’ebreo-praghese-asburgico di lingua tedesca Franz Kafka (1883-1924), ci ha lasciato essenzialmente degli scritti enigmatici (La metamorfosi) e spesso incompiuti, come i romanzi Il processo, Il castello e America. Anche molti suoi racconti si presentano allo stadio di abbozzo o narrazione di incubi. Dobbiamo comunque la possibilità di conoscerli a un amico di Kafka, Max Brod, che, contravvenendo alle disposizioni finali dell’amico, li ha salvati dalla distruzione e dall’oblio.
Di affascinante lettura, la narrativa di Kafka rappresenta a più livelli (famigliare, sociale, etnico, esistenziale, religioso) le angosce dell’uomo contemporaneo. Ed è certamente di difficile interpretazione, tant’è vero che il critico Walter Benjamin coniò per l’opera del praghese il termine allegoria vuota: il lettore capisce che il significato è simbolico, ma mancano le chiavi per scioglierne il senso.
Proponiamo al lettore per intero, nella traduzione di Emilio Castellani per la casa editrice Bompiani, uno dei racconti meno noti ma più sconvolgenti di Kafka. È Un vecchio foglio, del 1914 (per ascoltarlo, cliccare qui; un’altra bella traduzione è quella di Ervino Pocar, per l’edizione Arnoldo Mondadori). Paradossalmente, potrebbe essere inteso come uno scritto enigmatico, ma, leggendolo in senso quasi letterale, appare invece come una tragica profezia del fenomeno cui stiamo assistendo nella nostra epoca: un’immigrazione selvaggia, prepotente, agevolata da un governo che poi si dimostra impotente a controllarla e gestirla. Ogni comunicazione, ogni dialogo con gli invasori, dai costumi incivili e sempre più arroganti, è impossibile. Altro che integrazione-inclusione-assimilazione! La millenaria vita “normale” della comunità “indigena” è sconvolta: i cittadini “nativi” si sentono abbandonati a loro stessi e scaturisce il sentimento che devono salvarsi da soli. Una scrittura angosciante, metafisica e realistica allo stesso tempo…
Si direbbe che ci sia stata molta negligenza nelle misure prese per la difesa della nostra patria. Noi finora non ce ne siamo preoccupati granché e abbiamo badato al nostro lavoro; ma gli avvenimenti degli ultimi tempi sono tali da impensierirci.
Io ho una bottega di calzolaio sulla piazza davanti al palazzo imperiale. Appena apro il mio negozio o sul far del giorno, vedo che tutti gli sbocchi delle vie che conducono alla piazza sono già occupati da gente in armi. Non si tratta però dei nostri soldati, ma evidentemente di nomadi scesi dal Nord. Non riesco a capacitarmi come siano potuti avanzare fino alla capitale, che è tanto lontana dalla frontiera. Sta di fatto che sono qui e che ogni mattina il loro numero aumenta.
Conformemente ai loro gusti si accampano a cielo aperto, poiché aborrono le case. Passano il tempo ad affilare le spade, ad aguzzare le frecce, a fare esercizi a cavallo. Questa piazza tranquilla, sempre tenuta pulita fino allo scrupolo, l’hanno ridotta una vera stalla. Noi tentiamo sì qualche volta di uscire dalle nostre botteghe per sgombrare almeno il sudiciume più indecente, ma i nostri tentativi via via si diradano, giacché si dimostrano inutili e per di più ci espongono al rischio di finire sotto le zampe dei cavalli imbizzarriti o di essere feriti dalle frustate.
Parlare con i nomadi è impossibile. Essi non conoscono la nostra lingua, e si può a mala pena dire che ne abbiano una propria. Tra loro s’intendono alla maniera delle cornacchie. Di continuo si ode questo gracidare di cornacchie. Al nostro modo di vita, alle nostre istituzioni guardano con altrettanta ottusità quanta indifferenza; conseguentemente si mostrano restii anche ad ogni forma di linguaggio per gesti: puoi slogarti le mascelle e scardinarti le mani dai polsi, macché, non ti capiscono e non ti capiranno mai. Sovente fanno smorfie, roteando il bianco degli occhi e cacciando bava dalla bocca, ma non è che con questo vogliano dire qualcosa e nemmeno spaventare; lo fanno perché è la loro natura. Quello che gli serve, se lo prendono. Non si può dire che ricorrano alla violenza: basta che mettano la mano su una cosa, e ciascuno si fa da parte e gliel’abbandona.
Anche delle mie provviste hanno fatto man bassa. Io però non posso lamentarmi, se guardo per esempio quello che succede al beccaio dirimpetto; non fa in tempo a portare la merce in negozio, che i nomadi gliel’hanno già arraffata e s’inghiottono ogni cosa. Anche i loro cavalli sono carnivori; spesso si vede un cavaliere sdraiarsi a fianco del cavallo e divorare con lui, ciascuno a un’estremità, lo stesso pezzo di carne. Il beccaio è impaurito e non osa interrompere i rifornimenti. Noi comprendiamo la situazione e facciamo collette in suo aiuto. Se i nomadi non potessero avere la carne, chissà che cosa gli salterebbe in testa di combinare; e chissà d’altra parte che cosa gli salterà in testa anche se avranno carne ogni giorno.
Qualche tempo fa il beccaio pensò che poteva almeno risparmiarsi la fatica del macellare, e una mattina portò un bue vivo. Non l’avesse mai fatto. Dovetti starmene chiuso un’ora buona in fondo al mio laboratorio, steso carponi sul pavimento, con tutti i miei vestiti, coperte e cuscini ammucchiati addosso, per non sentire i muggiti del bue, assalito da ogni parte dai nomadi che gli strappavano coi denti brandelli di carne calda. Già da un pezzo era tornato il silenzio quando mi arrischiai ad uscire: giacevano stanchi intorno ai resti del bue come bevitori intorno ad un otre.
Proprio quella volta mi sembrò di scorgere ad una finestra del palazzo l’imperatore in persona; di solito egli non viene mai negli appartamenti esterni, abita sempre in fondo al più interno dei giardini; ma quel giorno, almeno così mi parve, stava a una finestra e a capo chino guardava il movimento che riempiva la piazza davanti al suo castello.
«Che succederà?» ci domandiamo tutti; «quanto a lungo dovremo sopportare questo aggravio, questo tormento? È stato il palazzo imperiale ad attirare i nomadi, ma adesso non sa come fare a ricacciarli. Il portone rimane chiuso e la guardia, che prima montava e smontava con gran pompa, se ne sta dietro le finestre protette da inferriate. A noi artigiani e bottegai è affidata la salvezza della patria; ma noi non siamo pari a un simile compito, né mai abbiamo preteso di esserlo. C’è un malinteso, e per causa sua finiremo in rovina».
(Franz Kafka, Un vecchio foglio, in Emilio Castellani (a cura di), Kafka. La metamorfosi e altri racconti, Garzanti)
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XIII, n. 153, settembre 2018)