Dopo la rottura della Gran Bretagna l’Unione europea cambierà la solita, ormai stanca e avvilente strategia?
Alla luce della sua importanza per il benessere di buona parte dell’umanità, è possibile indicare nell’Europa pacificata la più grande conquista del Novecento. Prima ancora che unita, infatti, essa esiste come insieme di Stati che – teoricamente sovrani – hanno sostituito alla guerra la politica e la diplomazia.
Il Regno Unito, con il referendum sulla cosiddetta “Brexit” e il relativo risultato, ha invece affermato un’eccezione ancor più significativa e complessa di quelle che già lo vedevano protagonista nei suoi rapporti con l’Ue, come l’estraneità al Trattato di Schengen o la non adozione dell’euro. Lo scorso 23 giugno si è compiuta una scelta in ogni caso eccezionale, in quanto prima e grave conseguenza di una latitanza della politica stessa all’interno degli orizzonti dell’Europa unita. Questo avvenimento potrebbe rappresentare un’occasione per ridestarla, o almeno per capire come gli establishment intenderanno gestire negli anni a venire la democrazia e i rapporti tra Unione e Stati membri.
Nel mondo ormai pienamente globalizzato sembra che tutte le scelte e gli orientamenti governativi che realmente contano non possano – o non vogliano – uscire da un sentiero già tracciato da decenni. Niente rotture; rari i progetti realmente intriganti – non per forza utopici – rispetto al corso storico-amministrativo avviato. Un consenso fatto da una parte di valutazioni di opportunità quasi esclusivamente di ordine economico e quantitativo, dall’altra di sostegno rituale e acritico a organi e istituzioni che non riescono ad attuare gli scopi per i quali idealmente dovrebbero esistere.
Ipotesi estremamente vaghe sulla convenienza economica della Brexit per Regno Unito e Vecchio Continente, insieme ad appelli “pelosi” per evitare un supposto sacrilegio contro il sogno europeo, hanno dominato il dibattito prereferendum, in un clima di indeterminatezza che rispecchia la confusione dell’Unione. Certo, un’onesta incertezza è meno irritante di eventuali azzardi simili a quelli che portarono alcuni padri dell’Ue a dipingere futuri scenari da Paese di Bengodi, puntualmente distrutti dalla realtà. Tuttavia i vuoti, i silenzi, le retoriche o le dichiarazioni di circostanza preparano il terreno a situazioni che naturalmente ne devono colmare l’inconsistenza. Le dinamiche che hanno condotto al 23 giugno ne sono un esempio, a prescindere dalle conseguenze e dalle giuste valutazioni sull’opportunità di decidere su una questione così complessa. Fatto sta che il Regno Unito ha deciso di non rimanere in un’Europa “sulla carta”.
Ne starà fuori, con un proprio stile e con una mentalità lontana, per esempio, da quella della Germania, che vi è più dentro che mai ma con spirito e pretese sclerotizzanti e alla lunga insostenibili. Rimembrando il Carl Schmitt di Terra e mare, è come se l’Inghilterra avesse voluto riscoprire la propria “coscienza insulare”, che le permise la conquista esclusiva dello spazio marittimo a contrasto del potere e delle ambizioni degli Stati continentali. Oggi, però, l’interconnessione totale rende impossibili le vecchie forme di indipendenza e l’unico beneficio complessivo che al momento possiamo realisticamente augurarci in seguito alla Brexit è che essa serva da stimolo per tentare di ordinare e agire su uno spazio politico incagliato e complicatissimo. Alle sole parole, probabilmente, sarebbe corrisposto invece un più sicuro ed ennesimo rimando dell’appuntamento con una politica impegnativa.
Christian Corsi
(Lucidamente, anno XI, n. 127, luglio 2016)