Con quali modalità ruoli e obbedienza al potere condizionano il nostro agire di singoli all’interno di un gruppo? Gli esperimenti di Asch, Milgam e Zimbardo
Se è vero che l’uomo è un animale sociale (dal latino socialis, da socius, “compagno”), come diceva il buon Aristotele, è forse altrettanto vero che la società e, soprattutto, le sue pressioni non sempre gli giovano. All’interno del gruppo, infatti, spesso tende a verificarsi una “diffusione di responsabilità” che porta il singolo a delegare il compito di intervenire all’altro e a seguire passivamente ciò che fa la maggioranza, interpretando il comportamento generale quale giusto da adottare.
Del resto, era già stato il pensatore liberale Alexis de Tocqueville (1805-59) a denunciare il pericolo della tirannia della maggioranza. E il filosofo liberaldemocratico John Stuart Mill (1806-73) aveva ritenuto il conformismo il maggior pericolo per la libertà e la democrazia. Negli anni Cinquanta, anche in seguito alla nascita dei totalitarismi e ai gravissimi crimini compiuti da uomini contro altri uomini, una branca della psicologia, denominata Psicologia sociale, tentò di dare alcune risposte a importanti domande sul comportamento degli individui all’interno della collettività. In particolare, tre studiosi, che, tra l’altro, si conoscevano e collaboravano, dimostrarono attraverso i loro esperimenti il peso del conformismo nella società, la tendenza a obbedire all’ordine costituito e l’importanza dei ruoli nel determinare l’agire umano.
Cronologicamente, il primo che incontriamo è Solomon Asch, di origini ebree naturalizzato statunitense, che mise in discussione l’indipendenza di giudizio del singolo in un gruppo: infatti, di fronte a un’opinione maggioritaria, la tendenza a conformarsi può essere più forte della lealtà verso ciò che si crede vero. Il test, basato sulla percezione visiva, dimostra che una persona quasi sempre concorda con la posizione della maggioranza, nonostante questa porti avanti un’idea evidentemente errata. Anche Stanley Milgram, studente di Asch e ispirato dalle sue teorie, mise in luce l’attitudine dell’individuo a omologarsi quando sottoposto a un’autorità costituita, anche se non necessariamente benevola.
L’interesse di Milgram per l’obbedienza era nato al tempo del processo per crimini di guerra al nazista tedesco Adolf Eichmann, il quale dichiarava di aver semplicemente «eseguito gli ordini». Lo psicologo si chiese quindi se una persona “normale” avrebbe potuto mettere da parte ogni nozione di bene e male semplicemente perché le era stato ordinato. Per l’esperimento, eseguito nel 1961 alla Yale University, vennero scelti uomini di varia estrazione sociale, ai quali fu spiegato che lo studio aveva lo scopo di analizzare l’effetto della punizione sull’apprendimento. Ogni due volontari, uno avrebbe fatto l’alunno e l’altro l’insegnante; questi avrebbe dovuto punire tramite scosse elettriche – che andavano da un voltaggio di 15 volt a 450 volt – ogni risposta sbagliata o mancata del discente. Si trattava in realtà di un generatore finto e la persona scelta ogni volta per interpretare lo scolaro era una “spalla”, che veniva selezionata tramite un’estrazione truccata.
Quando l’esperimento ebbe luogo, Milgram scoprì che tutti i partecipanti sottostavano all’ordine di somministrare scosse fino a 300 volt, arrivando anche, nel 65% dei casi, ai 450. Dalle reazioni dei volontari risultava chiaramente che, nonostante rispettare il compito assegnato andasse contro la propria morale, la pressione a obbedire era semplicemente troppo forte. In seguito alle scioccanti ricerche di Milgram, duramente criticato per la metodologia ritenuta poco ortodossa, lo psicologo della Stanford University Philip Zimbardo decise di scoprire come si sarebbero comportati degli individui messi in una posizione di autorità e con un potere pressoché illimitato.
Nel 1971 condusse l’ormai celeberrimo esperimento della prigione di Stanford che, rimasto nell’immaginario collettivo, è stato ed è tuttora fonte di dissensi. La domanda che Zimbardo si poneva era la seguente: cosa succede a mettere brava gente in un brutto posto? La sua ricerca ha rivelato che le persone tendono a comportarsi secondo i ruoli sociali loro assegnati: quelle in posizione di dominio fanno naturalmente uso (e abuso) della propria autorità e, per contro, quelle subordinate si sottomettono al potere, dimostrando che sono le situazioni sociali, piuttosto che l’inclinazione degli individui, a indurre comportamenti malvagi. Per fornire una prova di questa teoria, Zimbardo e il suo team di collaboratori selezionarono 24 studenti (maschi, di ceto medio, equilibrati, che non avevano mai mostrato comportamenti devianti), che suddivisero in maniera casuale tra “guardie” e “carcerati”.
La mattina del 14 agosto 1971 i giovani ai quali era stata assegnata la parte di detenuti vennero prelevati a casa e arrestati con vari capi d’accusa, trasportati alla vera stazione di polizia di Stanford, schedati e trasferiti nei sotterranei del Dipartimento di Psicologia dell’università, per l’occasione allestiti come si trattasse di una vera e propria prigione, con celle, letti, etc. Il primo giorno filò tutto fin troppo tranquillo, ma già dal secondo un’inaspettata rivolta dei reclusi cambiò le carte in tavola. L’ambiente divenne ben presto minaccioso, le guardie erano violente e autoritarie, imponevano ai carcerati pesanti esercizi fisici punitivi, isolamenti forzati, umilianti pulizie dei propri escrementi.
Dopo appena trentasei ore uno dei detenuti venne rilasciato perché in preda a pianto irrefrenabile, attacchi d’ira e depressione grave; trascorsi sei giorni, a fronte dei quattordici previsti inizialmente, Zimbardo mise fine all’esperimento. Secondo lo psicologo, quello che accadde nella finta prigione di Stanford sarebbe la prova di come sia possibile indurre delle brave persone a comportarsi in modo malvagio immergendole in “situazioni totali”, con un’ideologia che legittima le loro azioni e con regole e ruoli approvati. Casi controversi, quali gli abusi da parte di militari statunitensi ai danni di carcerati iracheni nella prigione di Abu Ghraib nel 2004, hanno richiamato l’attenzione sugli studi di Zimbardo che, dal canto suo, non si è mai sottratto alla notorietà, tra programmi televisivi, bestsellers e film ispirati alla sua storia. Il più recente è il film The Stanford Prison Experiment (regista Kyle Patrick Alvarez, Usa, 2015), tradotto in italiano come Effetto Lucifero. E, a ben vedere, non sembra anacronistico nemmeno oggi, in tempi di populismo e politica degli slogan, ricordare che basta poco per conformarsi. Perché, se la colpa è di tutti, allora non è di nessuno.
L’immagine: murale fotografato nel centro di Bologna dalla stessa autrice dell’articolo e la locandina italiana del film The Stanford Prison Experiment.
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XIII, n. 152, agosto 2018)