Una donna seducente non sarà mai legata a un solo uomo, così come una traduzione limpida non può che nascondere un tradimento dell’originale. La metafora e il linguaggio sono punti di vista privilegiati per analizzare gli atteggiamenti contraddittori verso la donna e la difficoltà in cui si incappa nell’esprimerla
Il filologo francese Gilles Ménage, nel 1654, commentando le traduzioni dal latino di un suo collega, compì per primo un’associazione destinata a rimanere nella storia, confessando che queste gli ricordavano «una donna di cui ero innamorato a Tours, che era bella ma infedele». Combinando linguaggio ed erotismo, l’espressione les belles infidèles segnala l’impossibilità di una resa perfetta e di una moglie ideale, capace di essere tanto devota quanto attraente. Ma non basta: il filosofo Benedetto Croce, nella prima metà del XX secolo, completò il parallelo parlando di «brutte fedeli», ossia dell’unica garanzia possibile – l’indesiderabilità – per una traduzione e un’amante affidabili. Ancora oggi, quest’antica e fortunata metafora viene raccomandata a studenti di liceo e università tentati da una versione più “libertina” del testo originale.
I primi dissensi sono arrivati, negli anni Ottanta del secolo scorso, dalla scuola femminista, che ha tentato di svelarne la contraddizione interna, oltre che il pregiudizio. Il problema sul ruolo della traduzione, mediazione neutrale o riscrittura di secondo grado, viene infatti posto in termini estetici, ma poi si risolve grazie a una scelta “morale”. Una simile prospettiva impoverisce ciascuno dei due valori: la bellezza è concepita in chiave negativa, come fonte di tradimento e sospetto, mentre la fedeltà è vista in modo passivo, in qualità di accettazione del proprio ruolo subalterno. Qui si nasconde un ulteriore inganno: possiamo essere fedeli a una persona, a un ideale, a un giuramento, ma in ogni caso è l’unicità del legame ad assicurarne la forza. Il traduttore potrà preservare alcuni elementi verbali, ma sarà necessariamente infedele al discorso in cui erano compresi.
L’analogia ha funzionato per secoli, corredata da similitudini neppure tanto sottili: la capacità di penetrazione del testo, il tradimento del linguaggio, la maternità-purezza linguistica da difendere e certificare, la paternità-autorevolezza dell’opera, da rivendicare e stabilire al di là di ogni dubbio. Il padre Dante ci ha dato l’italiano, il titolo di pater patriae dagli imperatori romani è stato ereditato da Garibaldi, ma tutte le raffigurazioni, sia della lingua (madre) sia della patria, sono immagini femminili. C’è uno squilibrio evidente in questa genitorialità incompleta, nelle regole grammaticali che ci lasciano orfani di donne quando in un gruppo è presente anche un solo maschile. L’occultamento diviene sintomatico se si esamina il fenomeno degli pseudonimi scelti dalle scrittrici: per ragioni di decoro nell’Ottocento (George Sand) o di voluta androginia nel Duemila (Banana Yoshimoto), sempre testimoniano una difficoltà doppia, della lingua e della cultura che l’ha prodotta.
Di recente, il dilagare del politicamente corretto ha proposto l’uso di forme femminili per ruoli di potere e autorità storicamente maschili (ministra, avvocata, sindaca), generando non poche polemiche, poiché in esse si leggerebbe una storpiatura, dei neologismi infelici e svilenti. Anche l’articolo davanti ai cognomi di donne di rilievo viene respinto, in nome di una parità che, pur di non distinguere, neutralizzi: se non si fa per gli uomini, neppure per le donne. Questi atteggiamenti, tuttavia, si rivelano ancora inefficaci e subordinati, legati al modello linguistico tradizionale e quindi, inevitabilmente, maschile. Se la lingua è prima di tutto convenzione, non solo opporrà resistenza ai cambiamenti, ma ne renderà vano anche lo sforzo, senza riuscire a soddisfare una corrispondenza esatta tra i nomi e le cose.
L’arbitrarietà del significato, l’impossibilità di dire tutto, di essere fedeli al discorso-realtà è un passaggio obbligato nel dibattito sull’espressione linguistica dei generi. Come per tradurre è necessario circoscrivere la fedeltà dal testo a una selezione di elementi, così per garantire alle donne una rappresentazione (anche) linguistica occorre decidere se negoziare sulla desinenza grammaticale o sulla rimozione di metafore, modi di pensare latenti e fortissimi. Virginia Woolf ci ha ricordato l’importanza di una stanza tutta per sé, inaccessibile alle recriminazioni e all’indignazione, in cui lavorare a uno stile libero e s-pregiudicato, fatto di toni e immagini adatti ai temi delle donne. Il quadro metaforico è cambiato: autori e autrici si fronteggiano, la traduzione ne ridisegna in continuo i confini. Più che una generica professione di fede e un’aggressività indistinta, si dovrà scegliere cosa salvare e cosa tradire, ossia – etimologicamente – cosa consegnare all’altra lingua e all’altra, finora ingombrante, metà.
Le immagini: una scrittrice “svolazzante”; una lettrice nel dipinto Sogni (1896, olio su tela, 135 x 160 cm, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna) di Vittorio Matteo Corcos (Livorno, 1859 – Firenze, 1933).
Antonella Colella
(LM MAGAZINE n. 27, 18 novembre 2013, supplemento a LucidaMente, anno VIII, n. 95, novembre 2013)