La profusione degli oggetti e lo scompaginamento del mondo in Carolina Leonetti è il titolo dell’Introduzione di Rino Tripodi ad Alicante (pp. 68, € 7,00) della poetessa calabrese, quarta uscita della collana di poesia Le costellazioni sonore delle nostre edizioni.
Ecco il testo critico del nostro direttore, per intero, di seguito.
Capita raramente, al giorno d’oggi, di leggere versi caratterizzati dalla freschezza, dalla gioia, dalla vivacità, dalla creatività, come quelli di Alicante di Carolina Leonetti.
I ritmi sono veloci, festosi, scoppiettanti, con frequenti ripetizioni lessicali gaie e briose. Alla poetessa, poi, piace usare anche tutti i possibili espedienti grafici: dai caratteri – maiuscoli/minuscoli, come in molti titoli, che vengono così a far parte pure essi del testo – alla vera e propria costruzione di disegni e forme attraverso i versi stessi, alla maniera di Apollinaire. Quindi, una trascinante sensazione di infantile gaiezza.
Come Whitman, la Leonetti sembra attirata dal “potente spettacolo” della vita; ma, diversamente che dal poeta statunitense, non tanto dagli uomini, dal loro brulichio, dalla loro vitalità. Né dalla natura, così presente nella poesia di tipo simbolista: essa è assente, e appare soltanto come manifestazione meteorologica.
Quanto più attraenti, agli occhi della poetessa, le “cose”! Ciò che eccita la creatività e la fantasia della nostra autrice, infatti, sono gli oggetti, soprattutto quelli quotidiani (ma non “tecnologici”): biciclette, bambole, fiori, letti, libri, ombrelli, caffettiere, armadi, orologi, cuscini, quadri, cravatte, telefoni, balconi, cappelli…
Cose è il titolo di un componimento quasi interamente costituito da un elenco di oggetti, graficamente sparsi per la pagina! Come non pensare alla celebre enumerazione della I strofa de L’amica di nonna Speranza (1911) di Guido Gozzano? Forse si tratta, anche in questo caso, di “buone cose di pessimo gusto”? Diremmo di no, perché manca il distanziamento temporale operato dal poeta crepuscolare e gli oggetti della Leonetti non sono “le scatole senza confetti, / i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, / un qualche rato balocco, / gli scrigni fatti di valve, / gli oggetti col monito”, ma cose comuni, verso le quali, peraltro anche lei, come il suo celebre predecessore torinese, adotta un atteggiamento tra il divertito, l’ironico e l’affettuoso.
Un’adesione sentimentale lontanissima da qualsiasi intento contestatore post cultura pop/Andy Warhol/Anni Sessanta nei confronti della società consumistica e del suo proliferare di prodotti: un accumulo caotico, una cascata inarrestabile che ci travolge, sostituendo uomini, valori, sentimenti e potrebbe far venire l’invincibile desiderio di un’esplosione catartica come quella raffigurata in Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni.
Invece, la Leonetti non si lascia afferrare dalla tentazione: i suoi oggetti, del resto, non producono sensazioni sgradevoli, ma quasi rasserenanti.
D’altra parte, gli oggetti non sono assunti passivamente, secondo un minimalismo crepuscolare, ma trattati alla maniera surrealista, magrittiana: la loro banalità, la loro normalità, vengono scompaginate, mediante accostamenti inaspettati che regalano al lettore un piacevole brivido di spaesamento o di vera e propria inquietudine perturbante.
In Bazar oggetti e materiali che li costituiscono sono stravolti: “Una pelliccia di carta / Un libro di visone / Un cappello di vetro / Un bicchiere di lana / Uno zaino di mogano / Un armadio di cuoio / Una spilla di cioccolato / …”. Un simile procedimento di accostamento irrazionale viene talvolta utilizzato per gli esseri umani: “Un prete con un libro di kamasutra / Una ballerina che vende ostriche / Uno spazzino vestito di seta / Una prostituta a scuola di dizione / Un barbone che compone commedie” (Al microscopio).
La realtà, pertanto, non è affatto statica e rassicurante: moti funambolici e sorprendenti, archi di stupefazione, soffici labirinti, si insinuano, in una commistione di forme e colori (ne La fioraia, tulipani, rose e margherite si scambiano i colori, diventando di volta in volta arancioni, gialli, bianchi).
Le “cose” si animano: tumultuano, si svolgono, si sciolgono, si inseguono, si rincorrono, si incatenano, interagiscono tra loro come riflessi da mille specchi, scatenando un turbinio di rifrazioni. In una sfrenata sarabanda la realtà palpita di vita misteriosa, magica; il cosmo è in perpetuo movimento, inarrestabile, alla ricerca di una propria bizzarra armonica ridisposizione: “Passeggiò su un muro / Bevve una musica / Si vestì in un bicchiere / Cantò un tavolino / Scrisse un fiore / Ballò un balcone / Ascoltò un quadro” (punti cardinali).
Lo spazio e il tempo si sfaldano, mostrando eccitanti smagliature. Si può procedere all’incontrario, come in Filastrocca all’indietro, oppure si può cambiare di forma (un cappello, come in Noia), secondo l’antico procedimento della metamorfosi.
Comunque, su tutto, prevale il gioco – vale a dire l’attività più “seria” che esista al mondo.
La realtà è messa sottosopra dalla “furia dadaista”, eppure “dolce”, dell’autrice: un’allegria selvatica al contempo tutta fisica e spirituale che scatena un fiume straripante nel proprio inarrestabile scorrere.
E, similmente a Palazzeschi, prevale una visione non paludata e seriosa dell’arte poetica, con un tacito invito, rivolto a tutti, al “buffo”, al divertissement (l'”imbuto paffuto” che ordina “un cappuccino”, in incredulità).
A tal punto che la poesia che apre la raccolta (E’ calato il sipario) annulla, divora tutto l’universo (“Non c’è vuoto / Non c’è niente / Non c’è neppure il nulla”), contraddicendo con suprema ironia le successive profusioni di oggetti, e parole, parole, parole…
(Rino Tripodi, La profusione degli oggetti e lo scompaginamento del mondo in Carolina Leonetti, Introduzione ad Alicante di Carolina Leonetti, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: la copertina di Alicante.
Eva Brugnettini
(LucidaMente, anno II, n. 9 EXTRA, 15 dicembre 2007, supplemento al n. 24 dell’1 dicembre 2007)