Nella raccolta di saggi “La responsabilità degli intellettuali” (Ponte alle Grazie) il filosofo statunitense riflette sul ruolo degli uomini di cultura nella società moderna. Nel mondo, intanto, si sta affermando uno scenario geopolitico di tipo multipolare
Il sociologo Pino Arlacchi ha spiegato che la maggioranza degli elettori statunitensi ha votato per Donald Trump perché «la sua formula politica è una risposta [seppure] scadente e truffaldina al risentimento di masse popolari angosciate e demoralizzate. […] La loro salute fisica e mentale è a pezzi, a causa dell’aumento di povertà, droghe pesanti legalizzate (Fentanyl e simili), suicidi, alcolismo, obesità e Ptsd (disordini mentali dovuti in prevalenza a postumi di guerra)» (Trump e il declino del popolo Usa, ne il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2025).
Gli yankees hanno perso la sicurezza ostentata all’inizio del XXI secolo: Tiziano Terzani, visitando gli States nel 2001, fu colpito «dal diffuso senso di superiorità, dalla convinzione di essere unici e forti, di credersi la civiltà definitiva […] senza alcuna autoironia» (Lettere contro la guerra, Tea).
Un pensatore anarchico e antimperialista
Nel 1964 il presidente statunitense Lyndon Johnson scatenò l’escalation militare in Vietnam, mandando allo sbaraglio mezzo milione di soldati. Tra i contestatori dell’impegno militare degli Usa in Indocina ci fu anche Noam Chomsky, noto per aver fondato la “linguistica generativo-trasformazionale” che sostiene l’esistenza di «principi linguistici universali, comuni a tutte le lingue e presumibilmente radicati nel patrimonio genetico della nostra specie» (vedi Psicolinguistica, voce treccani.it).
Il filosofo americano non ha mai nascosto le proprie simpatie per l’anarchismo e il socialismo libertario, impegnandosi con costanza e coerenza in difesa della pace e dei diritti civili (leggi il nostro breve saggio Le riflessioni di Noam Chomsky sul conflitto russo-ucraino e i rischi di una guerra mondiale). Recentemente è stato ristampato il suo libro La responsabilità degli intellettuali (Ponte alle Grazie, pp. 128, € 13,80) che raccoglie un saggio del 1967, uno scritto del 2011 e un’intervista del 2019 a cura di Valentina Nicolì.
Gli intellettuali asserviti al potere
Il primo saggio – intitolato La responsabilità degli intellettuali – discute il problema se siano imputabili anche ai popoli e agli uomini di cultura le atrocità commesse da chi governa. Chomsky ritiene che un cittadino comune, influenzato dalla propaganda politica, difficilmente possa «mettere a confronto le asserzioni […] con i fatti». Gli intellettuali, invece, «sono in condizione di svelare le menzogne dei governi, di analizzarne le azioni secondo le cause e i moventi, e sovente le intenzioni recondite», ma spesso – per servilismo – rinunciano a farlo.
La maggior parte degli studiosi occidentali, ad esempio, ha sempre esaltato l’american way of life e la «società aperta alla penetrazione economica o al controllo politico degli Stati uniti», giustificandone acriticamente il bellicismo. Coloro che hanno contestato agli yankees «il diritto di estendere il proprio potere e controllo senza limiti» sono stati spesso etichettati dalla stampa mainstream come «critici isterici» e «pazzi idealisti».
Uomini di cultura pro e contro la guerra
Nel secondo saggio – dal titolo La responsabilità degli intellettuali, seconda puntata – Chomsky chiarisce che «il concetto di “intellettuale” nell’accezione moderna si è imposto a partire dal 1898». Fu allora, infatti, che alcuni scrittori francesi (Anatole France, André Gide, Marcel Proust, ecc.) – sull’esempio di Émile Zola – redassero il Manifesto degli intellettuali per difendere Alfred Dreyfus, l’ufficiale di origini ebraiche accusato ingiustamente di alto tradimento. I “dreyfusardi”, tuttavia, «furono duramente avversati dagli ambienti intellettuali tradizionali», soprattutto da alcuni membri dell’Académie française (Maurice Barrès, Ferdinande Brunetière, ecc.) convinti della colpevolezza di Dreyfus.
Il contrasto tra «chi si mette al servizio dello Stato» e «chi invece rifiuta di allinearsi» esplose nuovamente all’inizio della Grande guerra, allorché anche gli uomini di cultura si divisero tra “interventisti” e “neutralisti”. John Dewey, ad esempio, giustificò l’impegno militare americano, mentre convinti pacifisti furono Eugene Debs, Karl Liebknecht, Rosa Luxembourg, Bertrand Russell (che vennero incolpati di disfattismo e incarcerati).
L’imperialismo degli yankees in America latina
Negli Usa del Secondo dopoguerra si diffuse un’idea distorta e strumentale di «intellettuale responsabile»: era considerato tale solo chi obbediva ai dettami della Casa bianca oppure criticava il blocco sovietico. Molti esponenti dell’intelligencija americana sostennero in chiave anticomunista l’imperialismo degli yankees. Persino John F. Kennedy – considerato un paladino dei diritti umani – lo legittimò, decretando che le missioni dell’United states army nel Nuovo continente rientrassero nella «sicurezza interna».
In quegli anni gli istruttori statunitensi addestrarono gli «squadroni della morte» e avviarono molteplici «attività paramilitari, di sabotaggio e/o terroristiche» contro chi si opponeva alle dittature sorrette da Washington. Dal 1960 al 1990 – secondo lo storico John Coatsworth – «il numero di prigionieri politici, persone torturate e dissidenti politici non violenti condannati a morte in America latina superò di gran lunga quello dell’Unione sovietica e dei suoi satelliti esteuropei» (The Cambridge history of cold war, Cambridge University press).
L’egemonia globale degli Usa
Il dominio economico americano fu rafforzato dai colpi di stato militari, come quello del 1973 in Cile, che provocò la morte di Salvador Allende (vedi, sempre a nostra firma, Nel 50° anniversario del golpe cileno “made in Usa”). Furono assassinati anche molti fautori della Teologia della liberazione attivi nel cattolicesimo latino-americano.
Nel 1975 Michael Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki pubblicarono The crisis of democracy (New York University press), uno studio finanziato dalla Commissione Trilaterale (voce treccani.it). I “trilateralisti” volevano eliminare l’«eccesso di democrazia» che rendeva ingovernabile l’Occidente, contando sul supporto di «intellettuali tecnocratici […] guidati dalla politica». Furono così create le condizioni per l’affermazione del neoliberismo economico e l’ascesa al potere di Margareth Thatcher in Gran Bretagna (1979) e Ronald Reagan negli Usa (1980). Il crollo dell’Urss (1991) fu sfruttato dagli States che – attraverso conflitti armati spesso scatenati pretestuosamente – imposero la loro supremazia a livello globale (vedi Rino Tripodi, Come provocare una guerra facendo la vittima).
Un nuovo scenario geopolitico mondiale
Nell’intervista finale Chomsky ribadisce che gli «intellettuali responsabili» dovrebbero adoperarsi per costruire un «pensiero contro-egemonico», fornendo «il maggiore contributo possibile ai movimenti popolari» tramite i social media. L’impegno civile del filosofo, purtroppo, si è interrotto nel 2023, allorché un ictus lo ha semiparalizzato.
Nel mondo, intanto, si sta affermando uno scenario geopolitico di tipo multipolare. Il Cremlino sta vincendo la Guerra russo-ucraina e, secondo il sociologo Alessandro Orsini, «ha inflitto una sconfitta strategica agli Stati uniti in Europa» (vedi Tutte le colpe Usa carte alla mano, ne il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2025). La distensione in atto tra Mosca e Washington, inoltre, potrebbe comportare la divisione del globo in zone d’influenza, nonché la spartizione dell’Ucraina. La Russia, infatti, annetterà certamente i territori ucraini conquistati, permettendo però agli Usa di sfruttare le “terre rare”, ricche di minerali indispensabili nella produzione di dispositivi elettronici e tecnologia green (batterie elettriche, pannelli solari, ecc.).
Le immagini: la copertina del libro di Noam Chomsky.
Giuseppe Licandro
(Pensieri divergenti. Libero blog indipendente e non allineato)