Nel suo romanzo d’esordio “Come vorrei che tu fossi qui” (inEdition) Davide Tassi rievoca con vivacità e freschezza le “avventure” vissute a metà anni Ottanta da un gruppo di amici nel capoluogo emiliano
In un andirivieni tra il presente della maturità, l’infanzia e soprattutto l’esaltante giovinezza, viene tracciata la stagione di un gruppo di amici, fatta di divertimento, nottate passate in giro, incontri, amori veri, presunti o mancati, drammi personali, sullo sfondo di una amatissima Bologna. Come vorrei che tu fossi qui (inEdition, pp. 204, € 12,00), recentissima opera prima del cinquantenne bolognese Davide Tassi, è un romanzo di formazione, piacevole, ma anche ricco di momenti lirici e commoventi. L’autore, dotato di una straordinaria sensibilità umana e psicologica, usa varie tecniche narrative, alternando la prima alla terza persona, collocandosi nel punto di vista dei vari personaggi e giungendo persino alla metanarrazione. Il risultato è un libro vivace, appassionato e coinvolgente. Del testo pubblichiamo di seguito l’intero capitolo La notte di Ca’ de’ Mandorli, nel quale viene descritta una vivace e “trasgressiva” serata invernale trascorsa presso il celebre luogo d’incontro delle giovani compagnie bolognesi.
Quando giungemmo a porta Castiglione, davanti all’ingresso dei giardini Margherita, le scorgemmo subito. Cristina, con il suo mitico pellicciotto bianco, jeans e scarpe col tacco e l’amica, con pantacalze tutte a fiori che stridevano sotto un giubbotto colore mattone.Portava un paio di stivali di pelle chiara molto bassi e, rispetto a Cristina, sembrava più piccola e di più giovane età.
La stonatura cromatica veniva però compensata da un corpicino molto aggraziato che le pantacalze mettevano in risalto, tanto che notai subito Sergione porre il suo interesse su alcuni punti ben precisi. Appena Cristina mi vide arrivare mi corse incontro. «Davide! Davide! Cavolo, pensavo non arrivassi più!». «Scusami, Cri… c’è un traffico bestiale a quest’ora… e poi Sergione non era pronto e mi ha fatto aspettare!». Lui mi fissò con sguardo divertito e si presento così: «È uno stronzo. Meglio che tu lo sappia subito e meglio che te lo dica un amico… Piacere, Sergio». Così facendo si abbracciarono. «Piacere mio, Sergio… Ma quanto sei alto? Io sono Cristina e chissà cosa ti ha raccontato di me Davide». «Di te nulla… Te l’ho detto, è uno stronzo…». «È uno stronzo che io adoro!».E così dicendo mi abbracciò e mi diede un bacio sulla bocca.
In questi convenevoli soltanto alla fine arrivò il turno di Maria, che era stata leggermente in disparte a osservare la scena. Io e il mio amico ci presentammo praticamente insieme, prendendole ognuno una mano e portandola alla bocca in segno di saluto. «Ciao, io sono Maria». E lo disse con un’aria veramente divertita che mise in risalto un magnifico sorriso. Portava il cappuccio del giubbotto alzato e non si notavano i capelli ma unicamente il viso. Spiccavano due occhi splendidi tra il verde e l’azzurro che, nell’oscurità di una notte invernale bolognese, brillavano di luce propria. Guardai Sergione e lo vidi soddisfatto; mi fece un cenno di intesa, come per dire che si trovava a proprio agio e che la compagnia gli piaceva molto. Durante il viaggio in macchina verso Ca’ de’ Mandorli facemmo un gran baccano: sembrava che ci conoscessimo da una vita, le voci erano altissime per superare il volume della musica, che questa volta non riesco proprio a ricordare tanto era in secondo piano. Quelle due ragazze avevano portato in un attimo un’allegria particolare fra di noi e non era solo una questione di sesso oppure di attrazione fisica, sembrava tutto così bello, così irreale.Non era certamente la prima volta che uscivamo con due ragazze, ma ora i tempi si erano accorciati clamorosamente e la stessa Maria, che sembrava così timida e impacciata, rideva di gusto a ogni stupidissima mia battuta.
Con questo clima arrivammo a Ca’ de’ Mandorli. «Ma che cazzo di posto è?». «Dove ci hai portato, Sergione?». Il piazzale delle auto era semivuoto e, quello che doveva essere un locale all’ultimo grido, era in verità un casolare di campagna. «È un centro sociale, Taxos, hanno dell’ottima vodka, vedrai che ti piacerà», esclamò Sergione. «Ma noi siamo delle signorine per bene, beviamo soltanto succhi di frutta»disse Cristina. «Succhi di frutta? Succhi di frutta io, stasera, con questo freddo, non ne bevo, a me la vodka va benissimo»aggiunse inaspettatamente Maria. «Grande, ben detto: lasciamo qui chiusi al freddo i due piccioncini e andiamo dentro io e te a riscaldarci».Su tali parole, lui la abbracciò e insieme si incamminarono a piedi verso il vialetto di entrata, parlando e scherzando fra loro. Maria sembrava una bambina a spasso con il papà e Sergione doveva procedere tutto storto per riuscire a tenerle il braccio sulla spalla.
Io e Cristina ridemmo divertiti a quella scena, poi lei mi guardò con occhi diversi dal solito, e che nulla avevano di una mangiatrice di uomini, e affermò: «Davide, non so se sei tu a essere speciale oppure sono i tuoi amici a renderti così. So soltanto che con te si sta benissimo. Qualsiasi cosa si faccia, con te diventa bellissima». «Ma no… Figurati… È che siamo degli scoppiati cui piace divertirsi. Mi fa piacere però quel che dici…». La guardai e ci avvicinammo, sentii le sue mani prendere le mie… Sentii i suoi seni appoggiarsi contro il mio petto… «Dai, allora, venite!?». Maria e Sergione urlavano insieme dall’entrata verso il piazzale. «Smettetela, dai! Non vorrete iniziare già adesso… Non fate gli asociali!». Ci incamminammo silenziosi sul vialetto, dapprima senza guardarci, poi non resistemmo più ed esplodemmo contemporaneamente in una fragorosa risata. «Cazzo, Taxos, secondo me noi abbiamo un destino avverso». «Chissenefrega!» risposi io… «Cavalchiamolo questo destino, alla fine vinceremo noi!».Le presi la mano e insieme entrammo nel locale.
L’aspetto era proprio quello da centro sociale. Una gigantografia di Che Guevara troneggiava in mezzo a un enorme stanzone tutto bianco, addobbato in qua e in là da sciarpe chiaramente rosse. La musica era assordante e subito riconobbi i Clash, un gruppo che non mi faceva per niente impazzire: li trovavo ripetitivi, noiosi e perennemente incazzati (https://www.youtube.com/watch?v=EfK-WX2pa8c). C’era poca gente, forse era troppo presto, ma, a giudicare dallo schieramento di barman, il locale si sarebbe riempito di lì a poco. Al centro della pista qualche esaltato ballava a ritmo frenetico quella melodia ossessiva. Maria aveva sempre il suo bel sorriso stampato in volto, sembrava divertirsi da matti in ogni situazione. Sergione si era messo presto a suo agio accendendosi una sigaretta e assumendo la sua solita aria “Humphrey Bogart”. Io e Cristina eravamo invece un po’ smarriti e stentavamo a entrare nell’atmosfera del luogo.Decisi quindi di rompere il ghiaccio, mi avvicinai al bancone e ordinai quattro vodke.
Il barman mi presentò altrettanti bicchierini di plastica bianchi colmi fino all’orlo, che potevano sembrare pieni d’acqua. Feci fatica a trasportarli fino ai miei amici, ma mi presentai così e nel rumore assordante della musica urlai: «Al nostro incontro! Alla balotta!». «Ma che roba è?» intervenne Cristina. «Tutto, tranne acqua»disse ridendo Sergione. «Guarda, non lo so, io ho ordinato quattro vodke e mi hanno dato questa roba qua!». «Vabbeh… Proviamo a vedere se va giù e come va giù!»urlò Maria per farsi sentire. «No, no, aspetta» la interruppe Sergione. «Dobbiamo fare un patto sulla nostra amicizia… E per fare questo patto… Dobbiamo bere tutto in un solo fiato». «Ma è da fuori di tes…». Non riuscii a finire la frase che venni coperto dalla voce di Cristina: «Io ci sto! Anzi, facciamo una sfida: quattro giri di questa roba e vediamo… chi riuscirà a finire vincerà».«Bella idea, sono d’accordo»esclamò Sergione.
Maria rideva di gusto e io ero un po’ preoccupato per la piega che stava prendendo la serata; conoscevo le sfide di Cristina e la sua voglia di voler sempre dimostrare l’impossibile: mi venne in mente il fuoripista sul monte Cimone. «Dai, Davide, sei andato tu a prendere da bere e adesso ti tiri indietro…». «Io non mi tiro mai indietro. Io vincerò la sfida!»replicai con poca convinzione. «Ragazzi, inizio io» esordì Maria. E, così dicendo, portò alla bocca il bicchierino di carta bevendolo dall’inizio alla fine in pochi secondi. «E vai! Grande, Maria, sei mitica!» fece il tifo Sergione, tutto contento; e, subito dopo, trangugiò il proprio senza battere ciglio. «Maria! Maria! Come stai? Com’è?» chiese Cristina all’amica, che stava tossendo rivolta verso il muro, per poi alzarsi tutta rossa in viso e tutta sorridente.«Cavolo, non pensavo… È fortissima… Comunque tutto bene, brucia soltanto un casino la gola…».
Fu il turno di Cristina di bere quella schifezza. Anche lei come l’altra fece soltanto in tempo a finire l’intero bicchiere prima di iniziare a tossire convulsamente. Non avevo più speranze. Toccava a me. Presi il mio e lo bevvi tutto d’un fiato, senza chiudere gli occhi e guardando dritto in faccia Sergione che rideva. Avevo la gola in fiamme ma non feci una piega, schiacciai il bicchiere di carta fra le mani e, alla maniera russa, me lo buttai alle spalle. La tensione si sciolse in un momento, incominciammo di nuovo a ridere e scherzare fra di noi, sembrava l’atmosfera della macchina, mi sentivo da Dio, i discorsi fluivano via bene, ricordo le mani di Cristina su di me e le mie sulle sue.Ricordo Sergione e la sua aria da ragazzo vissuto mentre tornava con il secondo giro, ricordo di nuovo la stessa scena di prima solo che a me non riuscì più di bere tutto in un sorso e mi inceppai a metà, ricordo che iniziai a tossire e ricordo Cristina che mi batteva le mani sulla schiena.
A un certo punto iniziò a fare un gran caldo dentro il locale, per cui qualcuno propose di andare all’aperto a prendere un po’ d’aria, non senza aver prima ordinato il terzo giro. Uscimmo con i bicchieri in mano e, nel giardino antistante il piazzale delle auto, ce li facemmo fuori suscitando i commenti della gente che intanto iniziava ad affluire nel locale. Da quel momento in poi i miei ricordi si fanno confusi e frastagliati. Ricordo bene, invece, le emozioni. Le emozioni che mi davano quei baci, quella bocca calda e accogliente, quel corpo che si stringeva al mio, quel calore che ci trasmettevamo. Che bello baciarsi su una panchina a zero gradi e mettersi le mani dappertutto, senza più inibizioni, senza più tabù!Ero estasiato, stavo vivendo un momento fantastico, ero completamente appagato e non avrei mai voluto che esso finisse.
Poi aprii gli occhi e lo scenario cambiò… Mentre lei continuava a riempirmi di baci, io riuscivo a vedere, seppure un po’ sfuocata, l’altra panchina che si trovava a pochi metri da noi e distinsi la sagoma di Sergione con una ragazza a cavalcioni; lei era di spalle, aveva i capelli corti e un culo bellissimo, tra l’altro aveva i jeans abbassati e le mani di lui erano sulle natiche nude di lei. Non riuscivo a realizzare, ma capivo che qualcosa non andava… Continuavo a sentire i baci di lei, le mani di lei dappertutto ma poi vedevo lei a cavalcioni del mio amico… Era lei, sì, era lei… Perché aveva il pellicciotto bianco… Ma come stavo bene io…Mi lasciai completamente andare a quelle effusioni, era fantastico godersi tutta quella dolcezza e tutto quel calore, sentivo che lei era su di me e dentro di me.
Le sue mani sul mio viso, il suo respiro dentro il mio, il suo profumo addosso… E poi con quei meravigliosi occhi verdi mi sembrava di essere al mare, di avere caldo, di avere voglia di spogliarmi; se chiudevo i miei mi sembrava di navigare e se li aprivo vedevo l’azzurro del cielo. Sentivo che ero nell’acqua, sentivo la faccia bagnata, sentivo anche il sale… Ora i nostri sguardi erano gli uni dentro gli altri, potevo vedere attraverso di loro… Ma non erano più azzurri e non erano più verdi… Stavano inondando i miei di lacrime, le stesse lacrime che io sentivo in bocca e che mi bagnavano il viso… Mi abbracciò sempre più forte e mi strinse a sé, schiacciando il suo viso contro il mio…Non avrei più voluto nient’altro al mondo. Niente, tranne lei. Maria.
(Davide Tassi, Come vorrei che tu fossi qui, inEdition, Bologna, 2014, pp. 90-96)
(a.c.)
(LucidaMente, anno X, n. 109, gennaio 2015)