Per festeggiare la vittoria del film di Paolo Sorrentino ne riproponiamo la recensione di “LucidaMente” a firma di Silvana Tabarroni
Il protagonista de La grande bellezza di Paolo Sorrentino ha una personalità singolare e un nome che non si dimentica: Jep Gambardella. Autore di un solo romanzo giovanile di successo e uomo deluso dalla vita, frequenta ogni notte la solita «fauna», dalla quale riesce a distinguersi grazie a una sensibilità innata, segno del suo destino di scrittore.
Fin da giovane, infatti, alla domanda «cosa ti piace veramente nella vita?», egli rispondeva «l’odore delle case dei vecchi». Trasferitosi a Roma e assorbito dal «vortice della mondanità», Jep si dedica al gossip giornalistico, con l’esigenza di divenirne il «re» e avere il potere di «far fallire le feste». Tony Servillo interpreta con grande espressività un personaggio ambivalente che alterna un’apparente determinazione a pigrizia e sensibilità, caratteristiche che lo condannano a una passività dietro la quale s’intravede però la ricerca di un’identità più spontanea e coerente. Ciò emerge attraverso la sua abituale maschera ironica, a tratti cinica, e il suo compiacersi di essere il polo dell’attenzione dei ritrovi romani in terrazza o nei salotti di magnifiche residenze di amici, durante serate divertenti o noiose, quasi sempre prive di rapporti autentici.
Il film si apre sul Gianicolo, con la morte di un turista che ammira il panorama mentre il Torino Vocalensemble esegue il brano I lie di David Lang. Blocchi di sequenze si susseguono secondo le suggestioni del regista e la musica, diegetica o extradiegetica, apporta sempre un contributo alla narrazione o alla fruizione puramente estetica delle scene. Con un brusco cambio di angolazione, il quadro si sposta su una terrazza dove, sulla versione techno di Bob Sinclair di A far l’amore, Sorrentino introduce i più disparati personaggi, tanto scontati quanto realistici, che animano le feste di cui Jep è il pigmalione.
Il protagonista, talora bonario e dolente, spesso smonta con tagliente ironia l’esibizionismo, la velata arroganza e la supponenza dei “soliti noti” delle serate mondane. L’empatia dell’uomo, sensibile di natura, si intreccia istintivamente alla seducente e malinconica Ramona (Sabrina Ferilli), convinta performer dello «spogliarello raffinato», e all’amico fraterno Romano (Carlo Verdone), scrittore di nicchia che vive nella frustrazione per la propria arte incompresa. Jep si sente in intimità con una Capitale deserta, contemplata nei lenti ritorni del mattino unitamente alle emozioni scaturite dall’alba di nuovi giorni; tra i gesti e i suoni rassicuranti chelo confortano una volta rientrato nella bella casa di fronte al Colosseo vi sono le confidenze della domestica filippina, una sorta di riscatto dalle futilità notturne.
«Ora chi si prende cura di te?» è la domanda che, quasi come un monito, scuote la coscienza di Jep, ormai consapevole che «nel rincorrere la vita che gli altri ci avrebbero invidiato ci siamo persi per strada la nostra». The Beatitudes di Vladimir Martynov, eseguita dai Kronos Quartet, ritorna più volte a sottolineare la nostalgia delle origini e i rimpianti, ma anche l’incontro per strada con l’attrice Fanny Ardant alla quale il protagonista, tra stupore e ammirazione, rivolge un fuggevole saluto. Questa scena pare una citazione di una sequenza delfilm Roma (1972), nella quale Anna Magnani dice a Federico Fellini : «a Federì… va’ a dormì che è tardi!». Due grandi attrici che i registi omaggiano attraverso brevi apparizioni nostalgiche.
Il racconto non risente dell’esilità della trama, poiché la colonna sonora supporta il viaggio emozionale che Sorrentino invita a condividere. Significative inquadrature esaltano la passata opulenza di Roma, il disagio di una bambina sconvolta dalle imposizioni narcisiste dei genitori, il fascino mistico di una suora centenaria detta “la santa”, la residua umanità di individui affamati di dignità e il rimpianto di aspirazioni tradite che persistono come fantasmi della memoria. Ed è proprio l’anziana religiosa uno dei personaggi più incisivi: «Sa perché io mangio solo radici? Perché le radici sono importanti» dice a Jep una mattina, dopo essersi sottratta all’affollata intervista organizzata in suo onore dal padrone di casa e avere dormito raggomitolata per terra. «Come mai non ha più scritto libri?» chiede poi, interrompendo la sosta di fenicotteri sul terrazzo, chevolano via lasciando il protagonista solo con i resti, sul tavolo, della notte appena trascorsa: scena dal sapore felliniano, apparente ulteriore omaggio a un artista che il regista napoletano riconosce tra i suoi maestri.
Sorrentino, in chiusura, stringendo sul primo piano di un Jep risoluto a coltivare la propria passione per la scrittura, trasmette un’idea di speranza nel cambiamento individuale, quasi a indicare una prospettiva per superare il disfacimento che interessa trasversalmente e in modo pervasivo ogni ambito della società. Con occhio acuto e colmo di malinconica pietas, il regista sonda e annota in questo film, forse la sua opera più matura, le conseguenze della decadenza del Belpaese sul comportamento e sull’animo degli italiani.
Le immagini: la locandina del film e il regista Paolo Sorrentino in mezzo al cast (da sinistra, Toni Servillo, Sabrina Ferilli, Carlo Verdone e Isabella Ferrari).
(n.m.)
(LucidaMente, anno IX, n. 99, marzo 2014)