Da un glorioso passato di combattenti a un presente disilluso di precari, le “libere lance” formano una schiera difficile da definire, fatta di collaboratori e consulenti senza condizioni lavorative certe, sempre più schiava della propria apparente autonomia
Ricercando su Google la parola “freelance”, il primo risultato è quello che proviene da Wikipedia. La nota enciclopedia telematica offre una definizione chiara e al tempo stesso problematica: leggiamo, appunto, che il termine designa «una specie di libero professionista che si distingue per l’indipendenza con la quale conduce la sua attività». L’ambiguità che caratterizza questa figura sta proprio nel fatto di essere “una specie” incompleta e non riconosciuta di lavoratore autonomo.
Nell’opinione comune il sostantivo viene percepito come uno dei tanti anglicismi usati per abbellire una realtà ben più dura, se indicata con il corrispettivo italiano di “precario”. Eppure quest’ultima non sarebbe una traduzione fedele. Ricostruendo le origini della parola, infatti, si passa dal mondo del mercato economico a quello della narrazione ottocentesca, dal realismo più cinico a quello che viene considerato il prototipo e il capolavoro dei romanzi storici: Ivanhoe di Walter Scott (1771-1832). Tra le vicende dell’Inghilterra del XII secolo, all’epoca delle crociate di re Riccardo I, per la prima volta fa capolino il termine “free lance” a indicare i guerrieri che ponevano la loro esperienza militare a servizio del signore che li pagava di più. Un’etimologia poco lusinghiera, quindi, che paragona i liberi professionisti di oggi a dei mercenari pronti a vendersi al migliore offerente.
La storia di questo nome e del suo inventore rappresentano, più che una metafora, quasi una profezia. Lo scrittore scozzese proveniva da un’agiata famiglia di avvocati, dei quali inizialmente seguì le orme. La passione per i testi storici lo spinse ben presto a dedicarsi solo alla scrittura, componendo ballate e poemetti ispirati al mondo medievale e di gusto romantico. Tuttavia, le difficoltà economiche dovute al fallimento dei suoi editori lo indussero a intensificare la produzione letteraria con gravi conseguenze per la salute, che lo portarono alla morte. Nel destino di Scott sembra di ritrovare quello di ogni freelance: un autodidatta animato dalla passione, dal talento e dalla tenacia, che lotta contro i debiti e la precarietà del lavoro.
In realtà, quando alcuni decenni fa iniziò a manifestarsi nel nostro Paese, il fenomeno della flessibilità fu accolto come una conquista senza pari. La possibilità di non essere legati da contratti esclusivi con case editrici, ditte o società doveva permettere a figure competenti e richieste dal mercato di sfruttare più occasioni di lavoro. Inoltre, poiché questa forma d’impiego riguardava soprattutto scrittori, giornalisti ed esperti di comunicazione, l’indipendenza da orari e sedi logistiche poteva costituire una condizione privilegiata per svolgere la propria attività creativa. Nei fatti, invece, l’autonomia si è tradotta in assenza di regole e la competitività in un gioco al ribasso: spesso il freelance è un vero e proprio dipendente di studi professionali nei quali si trova come in un limbo, senza essere né emancipato né protetto.
Il prezzo della libertà non comprende più, oltre al costo delle lotte per la propria autonomia, la spesa che il datore di lavoro dovrebbe sostenere per un servizio buono e vantaggioso che un altro concorrente potrebbe aggiudicarsi. I “soldati di ventura” hanno ormai la lancia spuntata e la loro finta indipendenza non fa più gola a nessuno. Le frontiere da conquistare sono sempre più vaghe e i signori hanno perso, se non il loro potere, ogni fascino e autorevolezza.
Le immagini: vecchi e nuovi freelance.
Antonella Colella
(LucidaMente, anno IX, n. 99, marzo 2014)