Nel considerarsi libera ostentando un corpo desiderato dal genere maschile, la donna maltratta costantemente se stessa
«Recognizing also that the human rights of women and of the girl child are an inalienable, integral and indivisible part of universal human rights». Mentre leggiamo queste parole, una tra le 6 milioni e 788 mila donne che hanno subito violenza in Italia accarezza le proprie cicatrici. Queste poche righe fanno parte della Risoluzione 53/134 del 17 dicembre 1999, con la quale l’Onu ha istituito la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La ricorrenza cade il 25 novembre.
Una giornata creata nel ricordo delle tre sorelle Miarbal, Patria, Minerva e Maria Teresa, che nel 1960, durante la dittatura di Rafael Leónidas Trujillo nella Repubblica domenicana, furono torturate, massacrate e uccise per i loro ideali rivoluzionari. Una giornata, però, nata soprattutto nella speranza di un futuro migliore. Purtroppo, i dati dell’Onu rivelano che ancora oggi nel mondo il 35% delle donne ha subito la prepotenza di un uomo. Secondo i dati dell’Istat del giugno 2014, tra le oltre sei milioni di donne molestate, il 20,2% è stata vittima di violenza fisica, il 21% di violenza sessuale, il 5,4% di forme più gravi di abusi come stupri e tentati stupri. Di fronte a dati come questi bisogna andare oltre le singole violenze, per cercare di comprendere quale sia lo sfondo culturale e sociale dal quale scaturisce tutto ciò.
Nasciamo e moriamo in una cultura fondata sull’opposizione tra il genere femminile e il genere maschile: le donne sono donne in quanto femminili, gli uomini sono uomini non in quanto maschili ma in quanto virili. La virilità è «una specie di superlativo identitario di genere», afferma Sandro Bellassai nel saggio Virilità (in Manifesto per un nuovo femminismo, Edizioni Mimesis; volume curato da Maria Grazia Turri). Essa non è considerata un’acquisizione culturale, ma un attributo naturalmente donato al popolo maschile; per l’equilibrio quantitativo e qualitativo della specie, nella vita pubblica come nella vita privata, sono indispensabili le facoltà virili dell’uomo.
Dall’Età greco-romana fino al fascismo, attraverso una scala crescente, gli attributi virili dell’uomo si sono identificati sempre di più con la violenza, il coraggio e il senso del domino. Tuttavia, con l’arrivo delle grandi rivoluzioni culturali degli anni Cinquanta e Sessanta, tutto l’armamentario retorico del virilismo viene a cadere: le donne conquistano la loro libertà e si diffonde nella società il valore dell’uguaglianza. Con questa nuova era, però, l’opposizione tra il prototipo maschile e quello femminile non è distrutta, ma è trasformata e sublimata in canali che sono tuttora culturalmente accettati. In televisione e nei cartelloni pubblicitari possiamo di continuo scorgere corpi femminili che soddisfano le fantasie maschili e che, quindi, ribadiscono le distinte competenze “naturali” dell’uomo e della donna.
La logica del dominio non ha mai abbandonato la mente dell’uomo: secondo le ricerche condotte dall’associazione We World onlus e da Ipsos Italia, il 25% (ben un giovane su 4) afferma che la violenza sulle donne è giustificata dal troppo amore o dall’esasperazione. Un aspetto ancora più sconvolgente, però, è che questa logica del dominio si è insinuata nella mente femminile come libertà: una donna mostra il proprio corpo solo se questo corrisponde ai canoni di bellezza maschili. Dato che le donne in passato dovevano nascondersi dietro abiti coprenti, quest’ostentazione è considerata libertà; in realtà, non è altro che una libertà incatenata.
La nostra vita quotidiana è invasa da spot pubblicitari che su internet, in tv e sui giornali vendono prodotti di qualsiasi tipo attraverso una sensualità femminile standardizzata (vedi I cosiddetti delitti per “amore”: “femminicidi” e dintorni). Quei corpi raffigurati per l’uomo diventano un oggetto da possedere, da dominare e per la donna diventano un’ossessione da perseguire. Ormai le donne «sono “soggetti” di un volontario asservimento all’immaginario maschile, protagoniste di un’apparente rivalsa che si avvale degli stessi attributi per i quali sono state per millenni sottomesse, sfruttate e violentate dall’uomo. Mi verrebbe da dire un’emancipazione malata», sostiene Lea Melandri, nel suo scritto Il sogno d’amore: la violenza invisibile, in Barbara Mapelli e Alessio Miceli (a cura di), Infiniti amori, Ediesse. Le violenze non dipendono dalla società, ogni uomo è responsabile dei suoi gesti, ma il seme degli abusi è ancora radicato in questa cultura.
Marialaura Iazzetti
(Lucidamente, anno XI, n. 122, febbraio 2016)
Condivido il messaggio della schiavitù sostanziale della donna di oggi che si propone come oggetto del desiderio maschile.
Grazie, Maria Laura, per il sostegno alle argomentazioni della Iazzetti.
Ottimo articolo trovato sul post FB di Rino Tripodi. Grazie, Maria Laura. Quando scopro che non saprei esprimere meglio un concetto, non mi rimane che condividerlo sul social di cui faccio parte e proseguire la discussione con chi ne senta il desiderio.
E’ un piacere per me avere persone a cui interessa leggere questi argomenti! A presto
Non posso che condividere il contenuto dell’articolo, nonché le brevi osservazioni delle lettrici. Mi pare di poter aggiungere che, mettendo a confronto TV, film e mondi diversi, lo stile italiano evidenzi la mancanza di misura e, ahimè, la volgarità: molte attrici recitano con le “zinne” e molte sono anche le giornaliste che non sanno rinunciare a lanciare illecebre di natura sessuale. La donna normale sembra essere diventata un esemplare raro. Mi pongo due domande:
– questa modalità distorta e esasperata di voler piacere all’uomo, non si fonda a sua volta su uno stereotipo maschile generalizzato? Proprio ieri un giovane amico (giovane rispetto a me, ossia quarantenne) mi ha detto che, per lui, la bellezza di una donna consiste soprattutto nella sua personalità e nella sua simpatia e che spesso sono le donne a pensare che, al primo posto dell’immaginario maschile, ci siano solo attributi fisici. Forse non è l’unico a pensare e a sentire in questo modo. Insomma, temo che la mancata emancipazione, di cui sopra, possa contribuire a sua volta a ricacciare l’uomo in uno stereotipo e a comportarsi di conseguenza (e viceversa).
– Mi domando anche se una mancata educazione a un’autentica libertà di pensiero – e dunque un mancato esercizio alla diversità – non sia il denominatore comune della “schiavitù”.
Ringrazio Margherita per il gradito intervento.
Aggiungo – a supporto del suo ultimo punto – che i recenti fatti di cronaca nerissima di questi giorni (in primis il “caso Defilippi”) dimostrano che a donne e uomini italiani manca del tutto un minimo di educazione sessuale, ai sentimenti, alla libertà individuale e sessuale.
Conseguenza: un immaginario archetipico folle (fiabesco, irreale o, al contrario, omicida) e devastante per sé e le/gli altre/i.