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Home GIURISPRUDENZA-DIRITTO DEL LAVORO-AMMINISTRAZIONE DEL PERSONALE (a cura di Alessandro Saggini)

La libertà sindacale

Alessandro Saggini by Alessandro Saggini
2 Dicembre 2019
in GIURISPRUDENZA-DIRITTO DEL LAVORO-AMMINISTRAZIONE DEL PERSONALE (a cura di Alessandro Saggini), TEMATICHE CIVILI
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La libertà sindacale
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  1. NORME NAZIONALI ED INTERNAZIONALI

Nel nostro ordinamento il riconoscimento della libertà sindacale si incentra sul sintetico disposto dell’art. 39 Cost, 1° comma (“l’organizzazione sindacale è libera”). Non vanno dimenticate tuttavia diverse fonti internazionali, tra cui le Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, n° 87 e n° 98. La Convenzione n. 87 concerne la libertà sindacale e la protezione dei fenomeni sindacali in genere, che vengono affermate con riguardo alla loro tutela nei confronti dello Stato; la n. 98 sviluppa invece il principio del diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva nei rapporti inter-privati, quindi, nei confronti dei datori di lavoro. Inoltre la libertà di associazione e di attività sindacale trova spazio nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e nella Carta sociale europea del 1961. Di fondamentale importanza sono pure le disposizioni dettate dallo Statuto dei lavoratori in materiasindacale; in modo particolare il titolo II della legge 300 ribadisce il diritto di associazione e di attività sindacale nei luoghi di lavoro (art. 14), il divieto di atti e di trattamenti discriminatori in ragione di affiliazione o attività sindacale (artt. 15 e 16) e si colpisce la costituzione dei sindacati cosiddetti di comodo (art. 17).

Il titolo III dello Statuto detta una specifica normativa “promozionale” dell’organizzazione e dell’attività sindacale nelle singole unità produttive, predisponendo una serie di diritti che valgono a rendere più agevole l’esercizio della libertà sindacale. Il legislatore del ‘70 ha altresì messo a disposizione delle organizzazioni sindacali un incisivo e rapido strumento processuale che consente di conseguire per via giudiziaria la repressione della condotta antisindacale posta in essere dal datore di lavoro. La libertà garantita a livello costituzionale all’organizzazione sindacale va oltre quella sancita in linea generale per il fenomeno associativo di cui all’art. 18 Cost. (infatti l’art. 39 non considera il sindacato quale “associazione”, bensì quale “organizzazione”, allargando quindi la sfera d’azione anche a forme organizzatorie non necessariamente a carattere associativo, come ad esempio le CI e i CdF).

  1. I CONTENUTI DELL’ART 39, 1° COMMA, COST.: IL PROFILO INDIVIDUALE E COLLETTIVO

L’art. 39, 1° comma, Cost. garantisce la libertà sindacale tanto ai singoli individui che ai gruppi organizzati. Sul piano individuale si può constatare una distinzione tra libertà sindacale positiva e libertà sindacale negativa. La prima consiste nella libertà per il singolo di costituire un sindacato, di aderirvi, di fare opera di proselitismo, di raccogliere contributi sindacali, di riunirsi in assemblea.

Il contenuto positivo della libertà sindacale risulta specificato dalle fonti internazionali (Convenzione OIL n° 87) e nella legislazione nazionale dall’art. 14 dello Statuto che ne ha garantito l’attuazione nei luoghi di lavoro. Siffatta garanzia trova un efficace sostegno nel successivo art. 15 che decreta la nullità degli atti o patti discriminatori, rivolti a colpire un lavoratore in ragione della sua adesione a un’associazione sindacale, dello svolgimento di attività sindacale o della partecipazione ad uno sciopero. Alla lettera a dell’art. 15 è rinvenibile l’unico riferimento presente nella legislazione italiana alla libertà sindacale negativa, ossia la libertà del lavoratore di non aderire o di recedere dal sindacato: il lavoratore, infatti, non può essere discriminato in relazione all’assunzione, al licenziamento o a qualunque altro momento del rapporto di lavoro (trasferimento, sanzioni disciplinari, inquadramento…) in ragione della sua mancata affiliazione ad un sindacato.

Analoghi momenti garantistici accompagnano le manifestazioni collettive della libertà sindacale. Tanto le norme interne quanto quelle internazionali tutelano prioritariamente la libertà di organizzazione del sindacato, il che implica la libertà di scelta delle forme organizzative e delle regole che disciplinano l’assetto interno, oltre alla libertà di definire gli obiettivi e gli strumenti dell’attività sindacale, senza alcuna interferenza esterna. Allo stesso modo è garantita la facoltà del sindacato di aderire ad organizzazioni complesse, sia a livello nazionale che internazionale. La libertà sindacale va intesa anche come libertà di privilegiare, all’interno dell’organizzazione sindacale, il ruolo e i poteri del vertice o della base, secondo le contingenti valutazioni di strategia e di opportunità e quindi di scegliere le relative strategie rivendicative.

L’art 39, 1° comma, non può essere circoscritto entro i limiti angusti di una dichiarazione di mera libertà organizzativa. La sua ratio storico-politica e il collegamento con il successivo art 40 ne impongono una lettura anche come affermazione della libertà di azione sindacale e, in particolare dell’azione contrattuale, come affermato nelle fonti internazionali (Convenzione Oil n. 98). La garanzia costituzionale dell’attività contrattuale si atteggia dunque come libertà, non come pretesa: ha per oggetto solo la libera elaborazione delle proposte rivendicative, la proposizione di esse, la formazione delle delegazioni, e più in generale, la scelta dei comportamenti negoziali appropriati da parte sindacale. Viceversa, non potrebbe essere invocata la libertà di azione sindacale ex art. 39 per pretendere da controparte la partecipazione alla trattativa (o tanto meno la stipulazione dell’accordo); l’imprenditore che abbia la forza di sottrarvisi è libero di farlo. La libertà sindacale, oltre che come libertà di organizzazione e di azione specie contrattuale, va intesa anche come libertà di lotta (includendo l’autotutela e lo sciopero).

  1. IL CARATTERE “SINDACALE” DELL’ORGANIZZAZIONE PROTETTA

Appare opportuno ora considerare quali organizzazioni e attività possano essere definite “sindacali” ai fini del 1° comma dell’art. 39, e possano quindi godere di tutte le garanzie connesse a tale norma, ivi comprese quelle processuali di cui all’art 28 dello Statuto dei lavoratori (possibilità di adire il giudice per una pronta condanna e rimozione di comportamenti datoriali lesivi). Dalla norma costituzionale può solo desumersi un rinvio alla realtà sociale. Un’attenta analisi del fenomeno sindacale mette in luce, innanzitutto, il c.d. profilo teleologico (o oggettivo), vale a dire il fine perseguito dalla fattispecie sindacale, che può essere individuato nella funzione di “autotutela di interessi connessi a relazioni giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro”. In altri termini, l’attributo della “sindacalità” contraddistinguerebbe quelle attività e quelle aggregazioni sociali che siano rivolte alla tutela di un interesse collettivo di lavoro.

In realtà l’esigenza di caratterizzare con maggiore puntualità la sfera sindacale induce quanto meno ad integrare il criterio teleologico con la considerazione degli strumenti tipici dell’azione sindacale. Se dal punto di vista “oggettivo” il momento sindacale può talora confondersi con quello politico-partitico per l’insistenza sugli stessi temi, sono gli strumenti impiegati nel perseguimento degli obbiettivi ad individuare un valido criterio discriminante. Nel caso del sindacato si tratta di strumenti di autotutela diretta dei lavoratori nelle forme storiche in cui queste si presentano: sciopero e contrattazione collettiva, innanzitutto, ma anche assemblee, raccolta firme, aggregazioni di consenso… Nel caso dei partiti politici si tratta dell’azione sul piano elettorale e all’interno dei canali istituzionali della rappresentanza politica. Ma il criterio teologico e quello strumentale vanno ulteriormente integrati con la considerazione di un sia pur minimo profilo “soggettivo”. Si vuole dire, cioè, che il concetto di “autotutela” implica pur sempre una gestione degli interessi collettivi posta in essere dagli stessi lavoratori o da loro immediate espressioni rappresentative. Per quanto ampia sia per i lavoratori la possibilità di delegare la rappresentanza dei propri interessi alle aggregazioni più diverse, deve pur sempre trattarsi di soggetti forniti di un’investitura, diretta e non mediata, operata dai lavoratori in quanto tali.

  1. LA TITOLARITÀ DELLA LIBERTÀ SINDACALE

Tuttora dibattuta è la questione della titolarità della libertà sindacale da parte degli imprenditori. Non si mette in dubbio che questi possano svolgere attività collettivo-sindacale. Si discute piuttosto se tale attività debba ritenersi riconducibile, come quella dei lavoratori, alla tutela costituzionale dell’art. 39, 1° comma, o piuttosto se rimanga nell’ambito della libertà di associazione e di iniziativa economica (artt. 18 e 41 Cost.), con i limiti del caso.

La concezione “unilaterale” della garanzia costituzionale dell’art. 39 prende spunto da alcune diversità tra attività sindacale dei lavoratori e dei datori evidenziate dalla prassi e dall’esperienza storica:

1) mentre sul versante dei lavoratori, l’attività sindacale è un fenomeno “collettivo”, mentre il datore di lavoro è soggetto sindacale anche come singolo.

2) Il contratto collettivo è inderogabile in peius dai singoli lavoratori, a conferma di una peculiare solidarietà di classe; è invece derogabile dal singolo datore di lavoro in senso più favorevole per i lavoratori, a conferma di una maggiore autonomia del singolo rispetto al collettivo.

Più conveniente sembra la tesi che nel nostro ordinamento i due fenomeni associativi dei lavoratori e dei datori, hanno quasi sempre una comune considerazione di base e che la loro ragion d’essere, pur storicamente differenziata, diviene sempre più assimilabile. Non vi è dunque motivo per escludere il sindacalismo datoriale dalla previsione dell’art. 39 comma 1° della Costituzione. Il fatto che poi, taluni svolgimenti legislativi si preoccupino di garantire soltanto la libertà sindacale dei lavoratori, trova coerente spiegazione nel rilievo che l’intervento si dirige a quella delle due parti che maggiori difficoltà incontra nell’effettivo esercizio della libertà garantita dall’art. 39.

Il processo di sindacalizzazione ha ormai varcato i confini del lavoro subordinato per interessare ampi settori del lavoro parasubordinato e autonomo: il primo trova spiegazione nel processo espansivo del diritto del lavoro proteso ad estendere le proprie garanzie in direzione di ogni ipotesi di dipendenza sociale ed economica; per il secondo (lavoro autonomo), le istanze di tutela “sindacale” degli ordini professionali, prima confluite all’interno degli organismi professionali, hanno successivamente indotto lo sviluppo collaterale di forme associative di natura privatistici con struttura e finalità peculiarmente sindacali. Il fenomeno connesso agli ordini professionali, oltretutto, non è esente da controindicazioni che traggono origine, essenzialmente, dalla stessa natura giuridica degli ordini e collegi professionali. Trattandosi infatti di enti pubblici ad appartenenza obbligatoria, sottoposti a vigilanza ministeriale, una loro “sindacalizzazione” finirebbe col dar luogo ad una sorta di sindacato unico con rappresentanza necessaria per tutta una categoria, essendovi obbligatoriamente iscritti tutti gli esercenti la professione e, per di più, di diritto pubblico.

Contrariamente a quanto è avvenuto per il diritto di sciopero, il riconoscimento della libertà sindacale ai pubblici dipendenti non è mai stato messo in discussione. A fugare ogni dubbio è intervenuto il D. Lgs. N° 29/1993 (ora confluito nel D.lgs n. 165/2001) che, nel privatizzare il rapporto di pubblico impiego, ha sancito la piena tutela della libertà e dell’attività sindacale nel settore pubblico, secondo le forme previste dallo Statuto dei lavoratori.

  1. LA MULTIDIREZIONALITÀ DELLA TUTELA DELL’ART 39, 1° COMMA, COST.

Il riconoscimento costituzionale della libertà sindacale esplica i suoi effetti sia sul piano del diritto pubblico – garantendo l’immunità dell’organizzazione sindacale nei confronti dello Stato e dei pubblici poteri – sia su quello dei rapporti privati e soprattutto nei confronti del datore di lavoro. Ai pubblici poteri è dunque preclusa ogni possibilità di controllo o ingerenza nella sfera organizzativa e nella identità politico-ideologica dei sindacati; è altresì vietato ogni condizionamento autoritativo, che possa irreggimentare il sindacato e la sua azione secondo le linee della politica governativa. In un quadro costituzionale in cui il modello di società non è rigidamente precostituito e nel quale campeggiano così istituti tipici del modello capitalistico come strumenti propri di un disegno di socializzazione della vita economica, l’azione sindacale, con i soli limiti derivanti dalla dinamica dei rapporti di forza, appare in grado di influenzare in modo decisivo la dialettica tra i due suddetti modelli e di spostare la frontiera mobile che li divide.

L’indicata autonomia del momento sindacale, sancita anche a livello costituzionale, non viene contraddetta dalla serie di condizionamenti e interdipendenze che si realizzano tra le parti sociali e lo stato nelle attuali relazioni industriali. Giacché non di vincoli giuridici si tratta, bensì di reciproche influenze di fatto fra i tre attori del sistema. Il problema della garanzia nei confronti di interventi dei pubblici poteri si presenta riguardo alla libertà di contrattazione collettiva, ossia riguardo alla possibilità che iniziative di carattere legislativo o amministrativo modifichino o pongano limiti inderogabili agli accordi intervenuti tra le parti collettive. Eventualità che si presenta soprattutto allorquando ragioni di crisi economica, esigenze di programmazione o di perequazione inducano il Governo o il Parlamento a porre dei “tetti massimi” alla contrattazione.

La libertà sindacale viene garantita, oltre che nei confronti dei pubblici poteri, nei confronti dei datori di lavoro, i quali, in quanto detentori del potere economico e alcune prerogative in tema di organizzazione e controllo del lavoro, sono in grado di condizionare la presenza e le iniziative del sindacato, specie nel luogo di lavoro. Il riconoscimento di un’ampia libertà sindacale nei confronti del datore di lavoro non può peraltro prescindere rispetto dalle esigenze organizzative dell’impresa. In altre parole, l’imprenditore è sì tenuto a garantire un’area di rispetto al sindacato, dando cittadinanza nell’impresa ad ogni forma di organizzazione sindacale, ma non è altresì vincolato a soggiacere all’azione sindacale, rinunciando alle sue istanze antagonistiche; la posizione giuridica del sindacato è appunto di libertà, non di pretesa. D’altra parte, anche la libertà di organizzare l’impresa e di ricercare il profitto sono riconosciute e tutelate dalla Costituzione (art 41).

Alessandro Saggini

(LucidaMente, anno XIV, n. 168, dicembre 2019)

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Tags: costituzionediritto del lavorolavoratorilavorolibertàsindacati
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