Nel suo “Glebalizzazione” (Rizzoli) il filosofo Diego Fusaro denuncia l’attuale ordine capitalista economico-finanziario, indicando anche le vie dell’emancipazione alla plebe precarizzata, alienata e reificata a vita
Per le anime belle, pure e semplici che non se ne fossero accorte: dal 1989, con la caduta dei regimi comunisti, sono tornati feudatari e servi della gleba. Oggi i primi sono costituiti da una casta di “Signori” capitalisti e globalisti, i secondi da una massa enorme e abbruttita di lavoratori atomizzati, sfruttati e precari in miserabile competizione con gli immigrati forzati. Una moltitudine alienata, priva di coscienza sociale e di classe, di strumenti ideali e politici per rivoltarsi contro un ordine disumano.
Da questa realtà che, a meno che non ci si volti da un’altra parte, abbiamo tutti sotto gli occhi, parte l’analisi del filosofo Diego Fusaro nel suo nuovo libro Glebalizzazione. La lotta di classe al tempo del populismo (Rizzoli, Milano 2019, pp. 322, € 18,00). Ma, per iniziare la battaglia sociale contro l’attuale situazione mondiale, occorre elaborare un lessico condiviso e nuove mappe concettuali, giacché lo straordinario potere capitalista ha inglobato dentro di sé il vecchio linguaggio antagonista, neutralizzandolo all’interno del “politicamente corretto” («il nuovo ordine mentale»). Non a caso, sono proprio le vecchie sinistre, ora rosso-fucsia (insieme a intellettuali, artisti, giornalisti, magistrati, star dello spettacolo, accademici e insegnanti), tra i migliori alleati dei potenti del mondo odierno, anche propagandando l’idea che esso sia inevitabile, desiderabile e, comunque, l’unico possibile. Del resto, per vedere “il re nudo”, sarebbe sufficiente chiamare le cose col proprio nome, definire la realtà per quella che è, sfuggendo a eufemismi e trappole neolinguistiche. Ed evitando quelle contrapposizioni orizzontali (donne/uomini, giovani/vecchi, nativi/immigrati, bianchi/neri, etero/gay; per non dire destra/sinistra, che non esistono più secondo i vecchi schemi) che fanno comodo al Potere perché fanno deviare dall’unica lotta vera, che è quella alto/basso, schiavitù/libertà, conformismo/emancipazione, precarietà/lavoro dignitoso.
Invece, i “Signori” odierni hanno imposto l’idea assolutistica del libero spostamento di persone, merci, idee, tecnologie, ecc., della flessibilità (ovvero precarietà a vita dei lavoratori), della privatizzazione, usando il ricatto del debito (pubblico e privato), della delocalizzazione, dell’outsourcing, dell’immigrazione forzata. Per il turbocapitalismo i nemici da abbattere sono innanzi tutto gli Stati nazionali (e le loro monete), da sostituire con organismi sovranazionali finanziari non eletti e antidemocratici (Organizzazione mondiale del commercio, Banca mondiale, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, ecc.); ma pure le altre forme comunitarie intermedie (sindacati, chiese, libera scuola statale, famiglie, ecc.), nonché la cultura classica, l’unica a insegnare a impiegare il pensiero critico.
Abbattuti i baluardi della democrazia, della convivenza civile, della comunità, nonché delle differenze culturali e linguistiche, ne consegue che vengano anche meno il welfare state, i diritti sociali e dei lavoratori. Gli sconfitti del nuovo ordine imperialcapitalista sono non solo operai e proletari, ma anche la classe media e la piccola borghesia (si vedano i licenziamenti in massa di bancari e lavoratori del terziario e la loro precarizzazione). L’ideologia che si impone loro per far accettare una condizione umiliante e disumana consiste nel far credere che si viva ancora in regimi democratici, minacciati, per di più, da fascismi inesistenti, nel superamento del radicamento e di ogni forma comunitaria, nella divinizzazione della Rete e dei connessi social, nell’edonismo, nel nomadismo Erasmus, nei “cosmetici” diritti arcobaleno, nell’indifferenziazione e nella massificazione, nell’assecondamento individualistico dei desideri transitori, nel consumismo nichilistico (compreso quello del sesso), nella liberalizzazione delle droghe, nel sostenere movimenti di protesta che sviano dalle vere cause del conflitto e dal vero nemico (alcune incarnazioni sono l’ambientalismo generico e unidirezionale di Greta Thunberg, l’accoglientismo ben finanziato delle ong di Carola Rackete o le insulse sardine), massacrando al contempo le vere contestazioni come quelle dei gilet gialli.
Si confonde l’internazionalismo con lo scialbo e impossibile cosmopolitismo, si demonizzano Stati, sovranità, popolo, culture nazionali, frontiere («il confine come frontiera e come limite non nega il transito, ma evita le invasioni»). Al contrario, sono proprio questi l’unico baluardo al capitalismo globale, con le sue conseguenze mortali e fatali: «polarizzazione della distribuzione della ricchezza», «impiego irrazionale delle risorse del pianeta», «dissesto ecologico», «dominio di un direttorio di potenze industriali», «peggioramento generale delle classi lavoratrici», «svuotamento delle democrazie nazionali a beneficio del mercato sovranazionale». Ma, per fortuna, il polo dominato, non ancora del tutto istupidito, impermeabile al nuovo ordine mentale proprio perché meno “colto” (in senso positivo: non integrato/corrotto nel pensiero unico), diffida della mondializzazione, del globalismo, dell’Unione europea, dell’immigrazione, e crede nell’intervento egualitario dello Stato, nei valori e nei principi costituzionali, nella nazione, nonché nelle tradizioni, da quella linguistica a quelle gastronomiche.
È il popolo, dileggiato dal Potere, politico, economico, culturale, come retrogrado, ignorante, arretrato. Tant’è che il termine populismo è divenuto, insieme a quello di sovranismo, una sorta di insulto. Invece, il sovranismo, inteso come difesa delle prerogative dello stato sociale indipendente e attento ai propri cittadini, e non certo come nazionalismo aggressivo verso gli altri Stati, costituisce l’unica possibile arma di difesa del popolo sfruttato e precarizzato. Il sovranismo può divenire solidale internazionalismo a fronte di un falso cosmopolitismo («il capitale è, per sua essenza, apolide e deterritorializzato»): «Non si può amare l’universale umano se non, concretamente, amando quella parte di umanità con cui si è quotidianamente in relazione, ossia la propria comunità d’appartenenza. […] amare, in astratto, l’umanità significa, in concreto, non amare nessuno e, insieme, accettare le ingiustizie che si abbattono su chi sta intorno a noi. […] l’essenza del falso umanesimo terzomondista [è] che ama l’altro che è distante e odia il prossimo che è vicino». Aggiunge Fusaro: «Si è umani nella misura in cui si è parte di una delle culture di cui si compone storicamente l’umanità».
Attraverso una giusta evoluzione in senso socialista del populismo e del sovranismo attuali, vanno recuperati i valori di patria, Stato, nazione, solidarietà, lotta di classe, ricordando che, accanto a tante storture, essi hanno permesso la nascita del welfare state, liberando gli uomini dall’angoscia della miseria attraverso una legislazione sociale che ha garantito assistenza in caso di disoccupazione, alloggi, scuola, sanità, trasporti, ecc. Per sottacere il fatto che è stata proprio la costruzione dello Stato-nazione a «oltrepassare le identità individuali (religiose, ideologiche, etniche) e porre in essere la figura di un’identità collettiva» basata sulla cittadinanza. In conclusione, solo dal recupero della sovranità statuale nazionale (compresa quella monetaria) e dalla lotta di classe di un popolo riappropriatosi culturalmente della visione vera e non edulcorata o falsata della realtà che potrà riavviarsi la storia dell’emancipazione umana contro il mostro neocapitalista. Perché nella dialettica storica niente è fatale e nulla è immutabile.
Altre recensioni di opere di Fusaro pubblicate da LucidaMente:
Diego Fusaro: la rivolta contro l’ordine economico mondiale;
Il sesso sporco del neocapitalismo.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XV, n. 169, gennaio 2020)