La lotta con l’anoressia. Una vita in bilico tra leggerezza e pesantezza, del corpo e dell’anima, in “Volevo essere una farfalla” (Mondadori) di Michela Marzano
Michela Marzano non è una scrittrice di romanzi. La sua fama internazionale la vede come una delle più importanti maitre à penser nel panorama intellettuale europeo. Laureatasi alla Normale di Pisa, è oggi docente di Filosofia morale all’Université Paris Descartes. Ma Volevo essere una farfalla (Mondadori, pp. 208, € 17,50) è un libro che esula dal suo lavoro didattico. Nel volume l’autrice decide di raccontare un frammento della propria vita, esponendolo con la consapevolezza di chi ha riflettuto a lungo, ha analizzato, ha interiorizzato le cause e gli effetti ed è in grado di restituire una storia che valichi i confini personali per diventare interessante e utile a chiunque la legga, incitando alla riflessione e all’approfondimento della conoscenza di sé e degli altri. Volevo essere una farfalla è uno di quei libri che una volta chiuso riecheggia nella mente, come un tarlo che si è insinuato per permetterci di vedere l’esistenza da una prospettiva diversa.
A una lettura semplicistica quest’opera è facilmente assimilabile al genere “libri sull’anoressia”, ma è troppo sbrigativo ridurlo a una categoria. La malattia rappresenta un simbolo delle difficoltà dell’esistenza e di come sia importante trovare le chiavi giuste per sopravvivere, per accettarsi, per amarsi. La stessa autrice parla dell’anoressia come di un sintomo, non come del vero malessere, che invece è da ricercarsi altrove, in altri luoghi – spesso dell’anima – che fanno paura, turbano e condizionano tutte le nostre azioni. Allora il deperimento del corpo diventa l’indizio «che porta allo scoperto quello che fa male dentro […]. È un modo per proteggersi da tutto ciò che sfugge al controllo. Anche se a forza di proteggersi si rischia di morire». Con questa premessa la scrittrice ci accompagna nel lungo viaggio attraverso la propria storia, un viaggio in bilico sulle corde della vita, lungo il quale è necessario imparare a trovare l’equilibrio giusto per non cadere.
L’autobiografia di Michela Marzano racconta come la lotta all’anoressia non sia stata solo una battaglia per sconfiggere la malattia, ma anche un modo per conoscere la vita, per imparare a sopravvivere, per accettare i difetti e le imperfezioni degli altri e, soprattutto, di se stessi. Tale patologia induce a tenere tutto sotto controllo, a essere rigidi, severi e fiscali. L’autrice racconta il suo desiderio, coltivato per anni, di voler diventare leggera, come una farfalla.
Ma la levità fisica si è contrapposta a quella spirituale: più perdeva chili e maggiore era la pesantezza della sua anima, del dolore che si accumulava, delle lacerazioni interiori irrisolte. Leggero era il corpo. Pesante il rapporto con un padre ingombrante. Pesante essere sempre la più brava, abbandonare il proprio paese, imparare un’altra lingua, dimenticare un grande amore e ricominciare a vivere dopo essere caduta nel baratro dell’anoressia, emblema, ogni volta, di «un desiderio perso nel tentativo disperato di adattarsi alle aspettative degli altri». L’eterno conflitto tra “essere” e “dover essere”, concetti molto cari a un filosofo, è stato duro da risolvere per una donna che ha sempre cercato di predisporsi a un volere esterno. E alla fine, dopo tanta sofferenza, è stato l’essere ad avere la meglio, perché si può anche sbagliare, e si può passare attraverso un altro concetto, il “diventare”, che implica azione, implica “potere” e non “dovere”.
Il dolore è uno dei fili conduttori che accompagna il lettore dentro le parole di questo libro. Un dolore acuto, lacerante, ma anche consapevole, analizzato e continuamente sottoposto a duro giudizio dal vaglio critico della ragione. Un dolore che, inevitabilmente, è costretto a passare attraverso l’accettazione di sé, delle proprie imperfezioni, dei propri difetti e dell’inevitabile impossibilità di poter tenere tutto sotto controllo. Una vita, quella della Marzano, all’insegna del troppo: «Se c’è un termine che mi definisce veramente è “troppo”. Mi innamoro troppo. Mi appassiono troppo. Mi stanco troppo. Mi arrabbio troppo». E quando si è così severi con se stessi, con i propri limiti e con le fragilità insite nel nostro essere “Umani”, è proprio allora che si crede di poter arginare le imperfezioni con una forza di volontà suprema che ha il suo apice nel controllo del cibo. Ed è così che la Marzano ha fatto prevalere la propria mente e la propria volontà sulle esigenze del corpo, vivendo per anni con l’ossessione di ordine, ragione e perfezione che l’ha quasi annientata.
A volte il sintomo può essere anche un rifugio, un modo per proteggersi da qualcosa di così profondo che non si può portare a galla troppo presto perché sarebbe pericoloso. Non mangiare o vomitare quanto ingerito dà l’idea di controllare la situazione. Il cibo è un mezzo che alcune persone usano per dire qualcosa, per esprimere un dolore profondo, per colmare un vuoto, per proteggersi. Altrimenti si perde il controllo, perché non si conosce bene la via per essere felici, perché nessuno l’ha mai indicata e perché accettare di scoprire chi si è veramente fa troppa paura.
E dunque l’anoressia, come la bulimia, può diventare anche un’occasione per mettere tutto in discussione, è un segnale del magma che si agita dentro di noi. E per guarire non basta ricominciare a mangiare o smettere di vomitare. Occorre scavare dentro, fare un lavoro che corroda le proprie convinzioni: «Niente cambia se non si riesce a dare un senso al proprio disturbo e a integrarlo nella propria vita», ci dice la Marzano. Accettare: altra parola chiave. Accettare che le ferite non si cancellano, che il dolore su cui si è costruito il proprio mondo resta sempre lì, nascosto «dietro le pieghe dell’esistenza».
Le immagini: copertina del libro Volevo essere una farfalla e foto di Michela Marzano.
Amelia Di Pietro
(LucidaMente, anno VII, n. 74, febbraio 2012)