Intervista in esclusiva a Piergiorgio Odifreddi, filosofo della scienza, matematico della società
Piergiorgio Odifreddi è autore di numerosi saggi che spaziano dalla filosofia alla politica, dalla scienza alla matematica. Può essere considerato a tutti gli effetti una delle menti più illuminate e più illuminanti del nostro Paese. La deriva “confessionale” e “populista”, cui andiamo drammaticamente incontro in nel presente momento storico, ci impone una riflessione approfondita sull’attuale stato delle cose. In questo senso e con questo spirito abbiamo avuto l’immenso piacere di intervistare colui che potremmo definire, riprendendo il titolo di una delle sue opere più conosciute, un “matematico impertinente”.
Professor Odifreddi, la politica attuale ha un rapporto a tratti paradossale con la matematica. Da un lato sembra essere schiava dei numeri (Pil, indici economici, sondaggi…), dall’altro sembra non accorgersi di alcune equazioni ovvie. Dunque c’è un abuso, un disuso o, semplicemente, un cattivo uso della matematica nella politica?
«Sicuramente non un abuso. La nostra visione della politica è assolutamente priva di qualsiasi elemento matematico. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno un team di esperti che studia alcune parti della matematica direttamente connesse con la politica, come ad esempio la teoria dei giochi, che si occupa di calcolare razionalmente quali sono le strategie ottimali in situazioni di opposizione o cooperazione. Questo potrebbe essere un primo passo per rendere razionale e matematizzata la politica stessa, come sognava secoli fa Leibniz che, con il suo famoso motto Calculemus, predicava una politica fatta di numeri ed equazioni anziché di infinite discussioni. A proposito di questo tema, qualche tempo fa ho intervistato Francesco Cossiga che mi ha raccontato un curioso aneddoto: quando fu rapito Aldo Moro, arrivarono in Italia gli esperti americani che gli chiesero di parlare con il suo team di consulenti, e lui, con un accenno di stupore, rispose: «Quale team?». Dunque, oltre all’uso dell’aritmetica nei bilanci e nelle finanziarie, che io do per scontato, ci sono molte nozioni di matematica applicata alla politica che sarebbero sicuramente molto utili».
Spesso si parla di anacronismo novecentesco a proposito di alcune ideologie superate o di alcune modalità partecipative retrograde, a partire dalla partitocrazia, per arrivare alla democrazia stessa. Qual è, secondo lei, il cambiamento più urgente di cui abbiamo bisogno in questo secolo, per migliorare la nostra politeia?
«È necessario rendersi conto delle limitazioni del sistema in cui viviamo. Io credo che il problema fondamentale di ciò che noi chiamiamo “democrazia” risieda nel fatto che le qualità necessarie per essere eletti non sono le stesse necessarie per poter governare bene. Questo è ciò che rende il gioco completamente falsato. Ma non si può parlare di colpe, né dei politici di destra né di quelli di sinistra; è il sistema che porta a eleggere persone che non sono adatte a governare. E questo è significativo, nel senso che dovremmo cominciare a ripensare al nostro modo di organizzarci. In realtà la democrazia, così come la concepiamo noi, è assolutamente anacronistica e datata. Si tratta di un sistema progettato nel Settecento che, ormai, dopo tre secoli, non è più adatto. I tempi sono cambiati, tutto è più veloce. Per esempio il sistema dei soviet, prima di trasformarsi in quella caricatura che è diventato nell’epoca stalinista, era un sistema molto interessante: ogni cittadino, a seconda dei propri interessi e del proprio lavoro, partecipava a tali gruppi rappresentativi che discutevano dei problemi attinenti e delle possibili soluzioni. Questi organi, poi, confluivano nel cosiddetto soviet supremo che si rinnovava continuamente, ogni qualvolta i cittadini non si sentissero effettivamente rappresentati dai loro leader. Avevano funzionato talmente bene che Lenin dovette sbarazzarsene immediatamente… Oggi, invece, le cariche durano cinque anni e questo ci limita molto. È successo già due volte che Berlusconi si sia trovato ad affrontare due situazioni impreviste, come l’11 settembre e l’attuale crisi, senza aver ricevuto nessun mandato specifico riguardo questi problemi. E ci siamo trovati in guerra, magari senza che la maggioranza degli italiani lo volesse effettivamente! Ora, è possibile che in un mondo che cambia così velocemente dobbiamo essere ancorati per cinque anni a qualcuno che abbiamo eletto per motivi diversi, e in condizioni diverse? Credo sia il momento di mettere in discussione la parola “democrazia”, senza spaventarsi e senza spaventare. Alla fine è soltanto una parola».
Lei ha collaborato, negli ultimi anni, con il Partito democratico, un partito che ormai da vent’anni sembra avere un “mal di stomaco” perenne, senza riuscire a trovare il giusto farmaco. Un cittadino di sinistra deve sperare che il Pd guarisca?
«Sono entrato nel Pd per caso, perché me lo chiese Veltroni. Pur essendo ideologicamente più a sinistra, presi questa decisione perché l’idea di un partito nuovo, completamente rifondato, avrebbe potuto rappresentare una vera e propria svolta per la sinistra italiana. Io ero interessato soprattutto al tema della laicità, cercando di contrastare quell’ala cattolica integralista che spesso aveva avuto il sopravvento in certe questioni delicate. Quando ci entrai, tuttavia, mi resi subito conto che la Binetti e i suoi “compagni”, in realtà, erano solo la punta dell’iceberg di un’enorme maggioranza cattolica che ha finito poi per trasformare il partito in ciò che è attualmente. La gente spesso si rivolta contro la “casta” dei politici, perché, giustamente, ritiene che ci siano dei privilegi e dei costi eccessivi per i parlamentari. Tuttavia molti non sanno che sommando l’intero costo del potere politico italiano (Camera, Senato, Governo, Regioni, Province, Comuni ed enti vari) si arriva ad una cifra di circa 4 miliardi di euro, meno della metà dei 9 miliardi che costa la Chiesa, volendo solo considerare le spese alla luce del sole. E anche questo rientra nel discorso iniziale che facevamo, cioè che per essere eletti bisogna comportarsi in un certo modo, parlare in un certo modo, e proprio questo atteggiamento è uno dei principali limiti del Partito democratico».
Molti sociologi hanno legato le teorie evoluzionistiche di Charles Darwin alla società, considerando l’evoluzione come unico possibile principio di trasformazione. Alla luce della rabbia sociale e dell’impoverimento morale a cui ogni giorno assistiamo inermi, pensa sia ancora politicamente “utile” la nota legge di Lavoisier secondo la quale «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», oppure al principio di evoluzione bisogna sostituire quello di rivoluzione?
«La metafora evoluzionista, a mio parere, è molto utile. Così come la presentava Darwin si trattava di un processo graduale, lentissimo, che procedeva per accumulazione, raggiungendo piccoli cambiamenti in lunghissimi tempi. Poi, però, guardando i fossili, si è scoperto che nell’era del Cambriano, circa 500 milioni di anni fa, si è assistito a una vera e propria esplosione di nuove specie che sembrano essere arrivate alla luce senza quel periodo di gestazione solito. Questo succede perché nella biologia esistono due tipi differenti di geni: i geni-muratore, che servono a svolgere delle funzioni specifiche, e i geni-architetto che hanno la funzione di dirigere i precedenti. Mentre i primi, quando vivono una trasformazione, subiscono un cambiamento lento, i secondi, al contrario, vivono trasformazioni drastiche, repentine, potremmo dire “rivoluzionarie”. Evidentemente nel Cambriano l’evoluzione aveva coinvolto i geni rivoluzionari. Dunque, così come per la natura, anche nella società ci sono periodi di tranquillità, di condivisione, in cui si effettuano cambiamenti graduali, contrattuali, ma quando poi si accumulano le differenze c’è bisogno di un cambiamento radicale, di una rivoluzione. In Italia spesso siamo stati vicini a concretizzare le rivoluzioni, ma non ci siamo mai riusciti e abbiamo continuato a vivere nei compromessi, anzi, a teorizzarli, anche quando sarebbe il caso di tagliare radicalmente, specialmente quando ci riduciamo a scegliere tra delinquenti e incapaci, quando le differenze non si sostengono più, come in questo preciso momento storico. Forse perché la rivoluzione non è nella nostra natura, forse perché siamo più muratori che architetti…».
Le immagini: Piergiorgio Odifreddi e la copertina del suo Il matematico impenitente (Longanesi).
Simone Jacca
(Lucidamente, anno V, n. 53, maggio 2010)