I libri, specie quelli scolastici, dovrebbero basarsi sui dati delle ricerche scientifiche e sulle verità cui sono pervenute le discipline. Ma spesso l’ideologia prevale. Per fortuna, c’è qualche eccezione
«Non sono […] sufficienti le misure a favore dell’integrazione, ma devono essere adottati tutti i provvedimenti necessari per impedire qualsiasi manifestazione di razzismo e xenofobia, cioè di avversione verso gli stranieri e verso ciò che proviene dall’estero» (Alberto Pellegrino, Le regole dello stare insieme, Bulgarini, p. 48; testo di Educazione civica per le scuole medie italiane). Avete mai letto in un libro della Repubblica italiana adottato nelle scuole simili inviti a censurare e a reprimere la libertà di pensiero e di manifestazione delle proprie idee? Forse, per trovare richiami simili, dovremmo tornare a qualche pubblicazione delle scuole del Ventennio fascista… (vedi Come l’Occidente ha perso la libertà d’espressione).
Sempre nello stesso libro di testo adottato nelle scuole medie italiane, si legge: «A volte l’irrigidimento dei gruppi extracomunitari è una risposta a manifestazioni di intolleranza e di razzismo oppure al sorgere di movimenti ideologici e politici a sfondo razzista. […] È tuttavia necessario iniziare il cammino verso una società multiculturale e multireligiosa, pacificata dalla nascita di una cultura scaturita da una sintesi di valori e di costumi fra loro diversi». Il grassetto è nostro, e vuole evidenziare il tono perentorio-dittatoriale di un pensiero che, invece, è una delle tante opzioni sul campo. Un progetto che la maggior parte dei gruppi stranieri presenti in Italia rifiuta a priori: un’unica «cultura scaturita da una sintesi di valori e di costumi fra loro diversi»? Islamici e cinesi si fanno una bella risata! Anche Andrea Giardina e Claudio Cerreti, nel loro L’occhio della storia. Corso integrato di storia e geografia. Con Atlante storico ed Elementi di geografia fisica e politica (Laterza, p. 96), sono perentori, anzi arrivano al diktat [i grassetti son sempre nostri]: «Oggi la scuola deve favorire l’integrazione dei figli degli immigrati e quindi la creazione di una società plurietnica e multiculturale».
E non crediate che al pensiero unico sfuggano testi che dovrebbero essere più neutri, quali quelli di Grammatica. È sufficiente introdurvi brani ad hoc. Ad esempio, a p. 214 di Fare il punto. Competenti in italiano (Pearson) di Anna Ferralesco, Anna Maria Moiso e Francesco Testa, troviamo questo “esempio grammaticale”: «Chiunque abbia desiderio o necessità di spostarsi deve poterlo fare. Chi vuole migliorare la propria condizione e realizzarsi deve essere libero di circolare». Un inno alle frontiere aperte, un invito rivolto a miliardi di persone a spostarsi, così, deo gratias!, avremo un’Europa con 3-4 miliardi di abitanti, risorse per tutti e ambiente pulito. Vuoi mettere? Bergoglio e Gretae gratias!
Insomma, cosa c’è di male nei contenuti che abbiamo trovato all’interno delle lunghe citazioni su riportate? Nulla. Si tratta di opinioni, posizioni, pensieri, discutibili, ma rispettabili. Il problema è che si tratta di opinioni, posizioni, pensieri ideologici di parte. Non si tratta di fatti, dati, date, numeri, verità assodate. È il pensiero unico politicamente corretto che si vuole imprimere a forza nelle teste dei nostri studenti (vedi Pensiero unico “correct”: una risata lo seppellirà?). Al di là dei brani citati, dappertutto, nei libri di testo delle scuole italiane, troviamo un quadro monocolore (e manicheo): bianchi, uomini, europei, cristiani (prebergogliani) cattivi; neri, donne, non europei, professanti altre religioni buoni. Tutti i mali del mondo (miseria, guerra, inquinamento, violenza, carestie, malattie, sfruttamento, discriminazione, sottomissione della donna) vengono fatti ricadere sui primi, inducendo non solo un senso di colpa, la nausea verso la propria cultura e la propria civiltà, ma anche un annichilimento. Dio mio, quanto male abbiamo fatto, quanto facciamo schifo! Se al mondo vi fossero stati solo neri, arabi, asiatici, amerindi, islamici, buddhisti, non avremmo avuto guerre, schiavitù, sfruttamento. Ma, dài, possiamo farcela. Un futuro senza i “cattivi” renderà il pianeta Terra un paradiso perfetto (vedi I tanti, troppi pregiudizi dei “progressisti” bigotti).
Però, oltre ai libri di testo «politicamente distorti» in uso nelle scuole italiane, ve ne sono alcuni che ancora espongono la realtà dei fatti. Ne abbiamo scelto uno per tutti, di Storia, nel quale troviamo non faziosità e ideologie preconcette, ma una serena narrazione e rappresentazione della realtà e dei fatti storici. L’esperienza della storia è un manuale per il triennio delle scuole superiori, diviso in tre volumi (III, IV e V anno). Gli autori sono Marco Fossati, Giorgio Luppi ed Emilio Zanetti ed è pubblicato dalle Edizioni scolastiche Bruno Mondadori-Pearson. Leggendo qua e là, troviamo varie affermazioni “s/corrette” (i grassetti sono quelli originali del testo).
Ad esempio, nel volume 1 (Il Basso Medioevo e la formazione dell’Europa moderna), nella scheda Un mito controverso (p. 55), dedicata alle crociate, leggiamo: «Si potrebbe immaginare allora che anche da parte dei seguaci di Maometto, nei quasi due secoli in cui si è protratto il tentativo cristiano di conquistare la Palestina, nascesse un mito speculare a quello occidentale della crociata. Leggendo invece le testimonianze dei cronisti arabi del tempo, osserviamo che i combattimenti per difendere e poi per riconquistare Gerusalemme sono riferiti con molta minore enfasi di quanto succeda nel campo cristiano. Se c’è un mito ricorrente nella memorialistica araba, questo riguarda se mai la città di Costantinopoli, preda ambita e irraggiungibile su cui si appuntarono per secoli i sogni dei condottieri musulmani fino a quando essa cadde, finalmente, nelle mani di Maometto il Conquistatore nel 1453. Il mondo arabo-islamico, che nei secoli XII e XIII aveva ormai concluso la fase del suo splendore, non sembrò attribuire alle crociate quel significato di scontro generale fra mondi opposti che si assegnava a esse nel campo avversario». Del resto, è quanto afferma lo storico statunitense Paul M. Cobb nel suo recente saggio La conquista del Paradiso. Una storia islamica delle crociate (Einaudi; titolo originale The Race for Paradise).
Ma non è finita qui. Subito dopo, nella stessa pagina, L’esperienza della storia afferma che l’attuale visione colpevolizzante (verso Occidente e cristianità) delle crociate «si affermò invece molto più avanti e, per un curioso paradosso della storia, [esse] sono diventate un mito negativo in tempi recenti, quando, nel clima di risveglio nazionalistico che ha caratterizzato il mondo arabo-islamico nel corso del XX secolo, esse sono state interpretate come un tentativo ante litteram di “assalto imperialista” da parte dell’Europa. Nella ricostruzione di alcuni leader del nazionalismo arabo contemporaneo i cavalieri con le insegne cristiane sbarcati nove secoli fa sulle coste della Palestina sono diventati così le avanguardie delle truppe di occupazione inglesi, delle multinazionali del petrolio e, perfino, del movimento sionista che voleva costituire uno stato ebraico in Palestina».
E la vergogna della tratta degli schiavi neri, attribuita dagli ignoranti solo e soltanto all’uomo bianco? Ecco cosa leggiamo a p. 205 del I volume del manuale di Fossati, Luppi e Zanette: «Gli europei che nel XVI secolo incominciavano a frequentare l’Africa subsahariana non erano certo i primi che ambivano a guadagni offerti dal traffico di esseri umani. Per secoli gli africani delle zone tropicali ed equatoriali erano stati sequestrati e venduti dai mercanti arabi e berberi che tenevano i contatti con l’Asia e con le regioni africane a sud del Sahara». L’argomento dell’immondo traffico degli schiavi neri viene affrontato anche nel II volume del manuale, a p. 28, dove si afferma un’altra scomoda verità: «Il rifornimento […] avveniva attraverso la mediazione di mercanti e razziatori neri che si procuravano gli schiavi dai sovrani degli stati africani e li vendevano o alle compagnie commerciali privilegiate, nelle loro piazzeforti sulla costa, o ai liberi mercanti». Nella scheda di approfondimento posta nella stessa pagina, si ribadisce: «Non c’è dubbio che la tratta non avrebbe potuto avere luogo se la schiavitù non fosse stata radicata nel continente; che il commercio di schiavi era già largamente praticato in Africa dai musulmani anche prima dell’arrivo degli europei; che le élite di alcuni regni africani giocarono un ruolo attivo nella tratta, vendendo ai mercati europei gli schiavi caduti prigionieri nelle guerre locali ma anche organizzandone il sistematico rapimento nelle aree interne».
Dall’orrore del traffico degli schiavi africani, della deportazione forzata nelle Americhe, alle grandi migrazioni di fine Ottocento nello stesso continente. Il luogo comune che gli Stati uniti siano sempre stati un paese sempre totalmente “accogliente” è smentito a p. 353 dello stesso volume II: «Finché l’emigrazione fu prevalentemente indoeuropea (soprattutto di tedeschi e irlandesi), non si verificarono restrizioni né sostanziali rifiuti. Le cose incominciarono a cambiare nell’ultimo quarto dell’Ottocento, quando si intensificò l’arrivo di italiani, ungheresi, slovacchi, cechi, croati, polacchi e russi. Questi immigrati non conoscevano l’inglese, anzi erano per lo più analfabeti; accettavano ogni tipo di lavoro, anche con salari inferiori ai minimi obbligatori; erano troppo deboli e impauriti per partecipare alle lotte sindacali. Ben accetti dagli imprenditori, che potevano sfruttarli, questi “nuovi immigrati” entravano in concorrenza, e quindi in conflitto, con i lavoratori locali sindacalizzati. Tuttavia, la loro integrazione fu possibile finché l’industria statunitense, in grande espansione, fu in grado di offrire agli operai americani possibilità di avanzamento e qualifiche più elevate, rimpiazzandoli nei lavori più faticosi e meno retribuiti con la manovalanza proveniente dall’Europa orientale e meridionale».
Ed ecco le difficoltà: «L’opposizione all’immigrazione presso l’opinione pubblica e le prime leggi che la riducevano o la vietavano vennero alla luce quando l’immigrazione cambiò colore, con l’arrivo sulle coste del Pacifico dei giapponesi e, soprattutto, dei cinesi. […] Ma a questo punto, dopo il 1910, l’America si stava ormai chiudendo anche all’immigrazione latina. Fra il 1911 e il 1929 si moltiplicarono gli Immigrations acts, leggi che limitavano l’immigrazione, e i National origin acts, provvedimenti che favorivano inglesi, tedeschi e scandinavi. Progressivamente venne sbarrato l’ingresso ai “gialli”, agli inadatti fisici e sociali, ai cattolici latini, agli ortodossi slavi ecc.».
E sul XX secolo? Il terzo volume dell’opera, intitolato Il Novecento e il mondo contemporaneo sfata molti miti instauratisi nel tempo e non si sottrae all’esposizione della verità. Per esempio, a p. 71 si racconta di Lenin che il 19 gennaio 1918 fece sciogliere con la forza l’Assemblea costituente democraticamente e liberamente eletta dopo la Rivoluzione d’ottobre perché l’assise «si rifiutò di riconoscere la legittimità del governo bolscevico». Nell’assemblea, infatti, i bolscevichi nominati nelle regolari elezioni erano in minoranza, solo il 25%. Sfatata dunque la menzogna che l’abbattimento della democrazia fu dovuto a Stalin. Il comunismo inizia e prosegue con colpi di mano, dittatura, repressione del dissenso.
Il genocidio degli armeni nel corso della Prima guerra mondiale, da sempre negato dai turchi e, per ultimo, dall’attuale autocrate Recep Tayyip Erdoğan? Se ne parla nell’intera p. 46. E quello degli ucraini a opera dello stalinismo? Altra esplicita scheda a p. 187 (Holodomor). La Palestina “sottratta agli arabi” (pp. 93-94)? Beh, questi ultimi cominciarono a cedere le loro terre a prezzi altissimi: «Fu da queste famiglie palestinesi che i coloni ebrei giunti in Palestina all’inizio del Novecento acquistarono le terre dei primi insediamenti: quanto più la domanda alzava il valore dei terreni, tanto più i proprietari erano indotti a vendere. Si trattava spesso di aree incolte e disabitate». Ma «l’insediamento ebraico era […] caratterizzato da grande dinamismo economico e capacità organizzative». Sicché «l’opposizione alla presenza ebraica da parte araba si inasprì negli anni venti, con aggressioni agli insediamenti dei coloni e ai quartieri ebraici nelle città. Non erano che i primi atti di un conflitto che dura tutt’oggi».
Seconda guerra mondiale: Alleati tutti buoni e mito della Resistenza. Su tali argomenti i tre autori, alle pp. 241 e 266-269, chiariscono qualcosa. A partire dal 1941 i bombardamenti angloamericani in Germania furono di gran lunga maggiori (vedere tabella) di quelli nazisti in Gran Bretagna, spropositati e con scopo terroristico. In particolare, le bombe sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki furono veri crimini di guerra, motivati in previsione del contrasto con l’Unione sovietica comunista.
Alla Resistenza partecipò una percentuale molto bassa di “armati” rispetto alla popolazione italiana. Più ampia fu la cosiddetta Resistenza civile, cioè l’opposizione e la solidarietà presenti nella maggioranza dei cittadini del nostro paese. A questa, e all’eroismo degli Imi (Internati militari italiani nei lager nazisti) che si rifiutarono di collaborare, viene dedicata la p. 266. Infine, tornando al I volume, a proposito di terrorismo, a p. 51, nella scheda Una setta di terroristi, si parla della setta ismailita denominata Assassini (dall’arabo hashashiin, cioè “consumatori di hashish”), con sede nel castello di Alamut, e si riporta l’opinione dello storico Bernard Lewis, morto nello scorso maggio a quasi 102 anni: «Da un certo punto di vista, ossia nel programmato, sistematico e prolungato impiego del terrore come arma politica, gli Assassini non hanno precedenti. […] Potrebbero benissimo essere considerati come i primi terroristi». Infatti, tale setta usava costantemente i propri agenti per uccidere i loro nemici politico-religiosi. In conclusione, per fortuna non tutti i libri di testo sono piegati al pensiero unico buonista politicamente corretto… (leggi anche Diego Fusaro: la rivolta contro l’ordine economico mondiale; Renato Cristin spiega la grande macchina globalista; Radical chic, un antidoto alla loro arroganza).
Le immagini: le copertine e alcune pagine tratte dai tre volumi de L’esperienza della storia di Marco Fossati, Giorgio Luppi ed Emilio Zanetti.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XIV, n. 162, giugno 2019)
Prezioso articolo su un tema delicatissimo.
In Francia i libri di testo per lo ‘insegnamento’ della storia stanno subendo una pesante manipolazione per volontà non dichiarata, ma intercettata tramite sue mail pubblicate in modo fraudolento, dello stesso Macron.