Nonostante alcune opinioni diffuse, si tratta di una patologia dalla quale è difficile uscire. Decisive sono prevenzione e influenze di famiglia, scuola e altre agenzie educative
Bisogna avere il coraggio antipopulistico di dichiarare che il tossicomane, con la propria e sola forza di volontà, non può uscire dal tunnel della tossicodipendenza e dei relativi danni psicofisici. Drogarsi è una “malattia” e l’assuntore non è in grado di cessare l’uso di sostanze illecite o di bevande alcoliche senza un supporto esterno di tipo psicoterapeutico e/o farmacologico.
Ogni dipendenza è un vero e proprio “stato patologico”
Viceversa, i perbenisti in giacca e cravatta dipingono spesso l’individuo tossicomane alla stregua di una persona viziosa caduta nel mondo delle droghe a causa dell’ozio e di una moralità insufficiente. La realtà è ben diversa, poiché il tossicodipendente uncinato proviene quasi sempre da famiglie disfunzionali ove una possibile evasione da una quotidianità insopportabile è costituita proprio dall’abuso di stupefacenti.
La vita di chi fa uso di sostanze stupefacenti è dominata dalla necessità assoluta e assolutizzante di fare uso di una sostanza, costi quel che costi in termini sia economici sia sanitari. Il tossicomane è disposto, nel nome della droga, a perdere ogni ruolo lavorativo e sociale, ma soprattutto affettivo e familiare.
L’astinenza fisica provoca sintomi dolorosi intollerabili; né, tantomeno, bisogna sottovalutare la dipendenza psicologica, ovverosia il soggetto uncinato non è più in grado di godere di piaceri ordinari (trattasi della cosiddetta anedonìa) e non riesce più a far fronte alle problematiche quotidiane senza il supporto di droghe. La sostanza diviene una divinità cui sacrificare l’intera giornata, con grande e grave dispendio anche di tipo economico (vedi pure Eroina sintetica: la morte di massa sta tornando).
Cosa dichiara il DSM-V
Anche il DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, nato nel 1952 ma diffusosi a partire dalla terza edizione nel 1980), curato dall’American Psychiatric Association (APA), afferma che le dipendenze sono reversibili al prezzo di sforzi enormi il cui risultato non è mai assolutamente garantito. Nella sua formulazione attuale, il DSM-5 contempla il «disturbo da abuso di sostanze» e, ciò che più conta, lo qualifica come una vera e propria “malattia”.
La versione attuale del DSM risale al maggio 2013 e ha unificato nel DUS (disturbo da uso di sostanze) le due distinte e pregresse patologie dell’«abuso di sostanze» e della «dipendenza da sostanze». Da sottolineare è che, sino a prima degli anni Ottanta del Novecento, l’APA non aveva ancora chiarito, senza mezzi termini, che le tossicodipendenze sono, a tutti gli effetti, una “malattia” a eziologia socio-patologico-familiare.
Chi rischia di più la tossicodipendenza?
Nella pratica quotidiana, i medici riscontrano che è maggiormente esposto alle tossicodipendenze chi ha già avuto, in età adolescenziale, un vissuto di depressione o di stress post-traumatico. In effetti, chi tende alle patologie mentali talvolta può manifestare difficoltà nella gestione di emozioni dolorose quali la paura, la vergogna e il senso di colpa.
La tossicomania, sotto il profilo causale, si esterna specialmente in individui che hanno avuto problemi familiari, vale a dire famiglie “tossiche”, dominate da litigi genitoriali continui e da precarietà socio-abitativo-ambientale. Ciò vale anche per l’alcolismo. Non si tratta di una predisposizione genetica, bensì del prevalere di influenze negative comportamentali che tendono a essere imitate dal giovane.
Nell’ultra-13enne si nota un “effetto trampolino”, ovverosia dalle prime esperienze con la cannabis e l’alcol si passa facilmente e quasi spontaneamente al consumo di sostanze maggiormente pesanti, come l’eroina, la cocaina e l’ecstasy. Questo passaggio conferma, dunque, che non esistono droghe “leggere”, nel senso che tutte le sostanze, compresa la canapa, possono essere il preludio a un percorso tossicomanico sempre più grave. Si inizia con lo “spinello in compagnia” per finire con l’uso di droghe sempre più pesanti e pericolose (leggi anche Il mito dell’uso ludico-ricreativo della cannabis).
L’astinenza totale è la miglior opzione, ma sono importanti pure famiglia, scuola, gruppi di appartenenza
Non v’è dubbio che l’astinenza totale dal mondo delle droghe sia la scelta migliore. Molto dipende dalla famiglia, prima e insostituibile agenzia di controllo, ma, ancor di più, i legami amicali e il gruppo dei coetanei svolgono un’invincibile influenza in età giovanile. Questo è ancor più vero in epoca contemporanea, perché oggi domina la moda della politossicodipendenza, ossia dell’uso contestuale di più di una tipologia di droga, quasi sempre mescolata all’alcol (leggi pure I funghi allucinogeni nella giurisprudenza svizzera e italiana).
L’opzione maggiormente auspicabile è – ripetiamo – quella di astenersi da qualsivoglia esperienza. Oppure, risulta spesso salvifico l’intervento genitoriale, che pone da subito fine a quella che potrebbe trasformarsi nella caduta in un tunnel dal quale sarà poi difficile fuoriuscire. Di solito, l’astinenza totale è riscontrabile presso la popolazione adolescenziale femminile, ma si tratta di un’eccezione sempre più rara. Infatti, è ben difficile trovare un/una ultra-13enne che non abbia mai sperimentato almeno una volta sostanze d’abuso.
Ribadiamo che, come prevedibile, la famiglia non può svolgere una profilassi totale e, pertanto, decisive sono pure le altre agenzie di controllo, come la scuola e il gruppo religioso di appartenenza.
Le immagini: a uso gratuito da Pexels (autori: MART PRODUCTION e Alexander Grey).
Andrea Baiguera Altieri
(Pensieri divergenti. Libero blog indipendente e non allineato)