Un genere poetico popolare, in “bulgnais”: ecco cosa ne dice Tiziano Casella
«Zirudèla, signorina, cum andàggna stmatîna…?». «Oh, buongiôrno, brîsa mèl… al parrêv un dé normèl…!». «Va mò in bâgn e fa prastén, / senò, pò, t arîv tardén…!». (Mo l é adès ch’ai vén al bèl, gîl vuètar s’l é normèl…! zêrti vôlt, prémma dla scôla:stê mò a sìntar ch’fâta gnôla…).
«Am arcmänd t et lèv i dìnt…».
«Mé, an m intarèsa gnìnt!».
«E la fâza t l’ît lavè?».
«An m la sòn mégga inspurchè…».
«Nàttat bän änc âli uràcc’.
Sèt che d mâz t m in fè paràcc’!?».
«Al lasîn fèni udursén…
Dâti bän un lavutén…!».
«Sòtta al brâza mé an sûd brîsa,
e acsé mé an m i lèv brîsa!».
«Al sidròt t et l ît lavè?».
«An i é mea nezesitè…
mé al lèv såul s’al va in funziòn:
in st’chès qué, al lèv dabòn!».
«I pì vèni pulidén,
opûr fèni un pó d tufén?».
«Ai ò bèla i stivalétt,
fâghia sänpar chèva e métt?».
«Csa farèt se i tu amîg
i n vrän pió t i vâga sîg
parché t fè un udursén
come quàll ch’al fa un pigrén?».
«Mo csa vût sänpar lavèr…
csa vût sänpr insavunèr…!
Dai ch’l é tèrd, andän mò vì
senò arîv âli òt e trì…!».
Quàssta l’é la meneghîna
ch’la s pòl sìntr âla matîna…
mé a lèż tótt quänt l elänc
scrétt in nàigar såura biänc,
e atachè atâc al mûr
int un sît ch’al s vàdd sicûr…
Mo… «An i é môd e né manîra…
mé am vói lavèr stasîra».
«Mo stasîra t vu durmîr…
e a turnän a fèr al gîr…!».
…Par furtûna che in realtè
tótt ste chès ch’a v ò cuntè
al suzêd na vôlta al màis
e an cràdd brîsa dèri pàis…
l’é pôc pió che una sturièla…
tòc e dai la zirudèla!
(Zirudèla col savòn. Conversaziòn con mi fiôla…, żnèr 1999. Dedicata ai genitori di bambini e bambine, ragazzi e ragazze… poco innamorati dell’acqua e del sapone, da Quaderni per il dialetto, n. 4, 2001)
Tiziano Casella
La successiva traduzione in italiano segue per quanto possibile la costruzione del dialetto: quindi si rivela assai “dialettizzante”, se rapportata all’italiano corretto.
Zirudella col sapone. Conversazione con mia figlia (che nel 1999 aveva 11 anni)
Zirudella, signorina, / come andiamo stamattina…? / “Oh, buongiorno, non male… / sembrerebbe un giorno normale…!”. / “Vai mo’ in bagno e fai prestino / sennò poi arrivi un po’ tardi…!”. / (Ma è adesso che viene il bello / ditelo voi se è normale…! / certe volte, prima della scuola: / state mo’ a sentire che fatta “gnola”…). / “Mi raccomando che ti lavi i denti”. / A me non interessa niente…”. / “E la faccia, te la sei lavata?”. / “Non me la sono mica sporcata…”. / ” Pulisciti ben anche le orecchie. / Sai che di “mazzo” me ne fai parecchio!?”. / “Le ascelle fanno profumino. / Dattici ben una lavatina!”. / “Sotto le braccia io non sudo / così non me le lavo”. / “Il “sederotto” te lo sei lavato?”. / “Non c’è mica necessità… / io lo lavo soltanto se va in funzione: / in questo caso lo lavo davvero!”. / “I piedi vanno benino / oppure fanno un po’ di cattivo odore?”. / “Ho già gli stivaletti, / faccio sempre cava e metti?”. / “Cosa farai se i tuoi amici / non vorranno più che tu vada con loro (sîgh) / perché fai un odorino / come quello di un agnellino?”. / “Ma cosa vuoi sempre lavare… / cosa vuoi sempre insaponare…! / Dai che è tardi, andiamo mo’ via / sennò arrivo alle otto e tre quarti…!”. / Questo è il ritornello / che si può sentire ogni mattina… / io leggo tutto quanto l’elenco / scritto in nero sopra bianco / e attaccato al muro / in un posto che si vede sicuro… / “Ma… non c’è modo né maniera / io mi voglio lavare stasera”. / “Ma stasera vuoi dormire / e torniamo a fare il giro…!”. / …Per fortuna che in realtà / tutto questo fatto che vi ho raccontato / succede una volta al mese / e non credo gli si debba dare peso… / è poco più che una storiella… / toc e dai la zirudella.
Quella che avete appena letto, nel dialetto originale e nella traduzione in italiano, è una zirudèla. Molto diffusa nel passato nel territorio bolognese, era un genere poetico popolare che si recitava, con accompagnamento musicale, in occasione di cerimonie nuziali o altri banchetti contadini.
Uno dei primi esempi può essere considerato Pr un dsnèr ed campagna (Per un pranzo campagnolo), autore addirittura il cardinale Giuseppe Mezzofanti (Bologna 1774-Roma 1849). Di zirudèle precedenti sicuramente molte altre devono esserci state, solo che, come tutta la poesia popolare, erano tramandate oralmente, anche perché gli autori erano sì arguti e pungenti, ma analfabeti, per cui, inesorabilmente, i testi, col tempo, tendevano a essere dimenticati.
Tuttavia, alcuni poeti sono rimasti famosi, come, tra XIX e XX secolo, Giuseppe Ragni, mitico venditore ambulante di San Lazzaro di Savena, o, nel Novecento, il suo apprendista Oreste Biavati, e Piazza Marino, che accompagnava le sue declamazioni al suono di ocarina o clarino (in effetti, come si è detto all’inizio, ai testi, originariamente, era unita la musica, che è andata inevitabilmente persa).
Le caratteristiche tecniche della zirudèla – Sull’origine del termine vi sono due ipotesi. La prima fa risalire la parola alla “circolarità” tipica di componimenti medievali come il rondò. La seconda la collega alla ruota della ghironda, strumento che accompagnava i testi. Ad entrambe le ipotesi, comunque, si perviene con vari complicati passaggi. La lunghezza della poesia è libera, dipende dall’estro dell’autore. Tuttavia, essa deve iniziare appunto con la parola zirudèla e finire con il verso tòc e dai la zirudèla! o tic e tac la zirudèla!, a imitazione onomatopeica dello strumento stesso. I versi sono ottonari, spesso tronchi. La rima è baciata. Il genere è satirico, comico-giocoso, a volte burlesco: spesso si parla di una situazione, di un personaggio, di un avvenimento, o si racconta addirittura una storia in versi, con intenti ironici, beffardi o sarcastici.
La rinascita – A Budrio questa forma poetica sta rivivendo una nuova stagione, grazie alla percezione positiva della cultura dialettale che si sta facendo strada a seguito della pubblicazione dei Quaderni per il dialetto ed all’impegno di alcuni appassionati. Tra questi, Tiziano Casella, cinquantenne in ottima forma, responsabile del settore cultura, tempo libero e sport del Comune di Budrio, cittadina a pochi chilometri da Bologna, sulla direttrice nord-est. Lo abbiamo intervistato presso il suo ufficio comunale, semisepolto da manifesti, libri, dépliant, ed abbiamo avuto il piacere di porgli una raffica di domande, alla scoperta del mistero e dei segreti della zirudèla e della sua recente rinascita.
Quali sono le finalità dei Quaderni per il dialetto?
Esse sono di varia natura. Una è quello conservativo-documentaria. Una decina di anni fa, quando intrapresi l’iniziativa, la situazione del dialetto nel nostro territorio era molto difficile: esisteva il reale rischio che sparisse. Occorreva, pertanto, almeno “salvarlo”, fissandolo nella forma scritta e anche orale (da qui alcuni documenti su supporto audio). Poi c’era la volontà di recuperare dall’oblio le zirudèle di grande valore di autori budriesi, scomparsi o ancora viventi, con l’obiettivo di tutelare il dialetto e divulgare i testi…
E le cose sono andate bene. Sul piano della produzione e del recupero dei testi…
Abbiamo pubblicato sei Quaderni per il dialetto negli anni 1998, 1999, 2000, 2001, 2004 e 2006, curati da me, grazie al finanziamento del Comune di Budrio, dell’Istituto Beni culturali della Regione Emilia-Romagna e di varie associazioni budriesi. In essi abbiamo pubblicato le opere di vari autori. Tra i poeti di Budrio in attività voglio ricordare, oltre a me stesso, Gioconda Canè, Sergio Vecchietti e Giordano Villani, tutti inseriti nei Quaderni. Ora stiamo recuperando anche i testi di autori scomparsi, come Arturo Lodi, morto all’inizio degli anni Sessanta, e Mario Zerbini, venuto meno all’inizio degli anni Ottanta. Si tratta di un paziente lavoro di ricerca, presso le famiglie e gli amici dei poeti.
E so anche di premi letterari…
Dal 1990, nell’ambito della Festa dell’Unità di Budrio, esisteva un concorso provinciale di poesie e zirudèle in dialetto: l’Ucarîna d ôr (Ocarina d’oro). Esso, dal 2002, è stato ceduto dai Ds al Comune di Budrio. Uno degli ultimi vincitori è Sergio Vecchietti, che è uno degli gli autori che maggiormente stiamo apprezzando.
E qual è la situazione della divulgazione del dialetto?
Una grande soddisfazione è stata la Scuola del dialetto, nata nel 1997 in due corsi distinti, per i ragazzi e per gli adulti. Ora il dialetto è entrato a far parte, come laboratorio, delle attività della Scuola elementare di Budrio, con una partecipazione sempre maggiore (attività complessiva di 12 ore per ciascuna delle otto classi che hanno aderito, per un totale di circa 200 ragazzini). E si pensi alla ricaduta sulle famiglie (genitori, fratelli, nonni, ecc.). Nel prossimo futuro vedremo di coinvolgere anche la Scuola media.
Questo consente un certo ottimismo?
Senz’altro. Direi che a Budrio il rischio dell'”estinzione” del dialetto possa considerarsi al momento scongiurato. Anche per un motivo cultural-psicologico: ciò che è insegnato a scuola, viene automaticamente valutato positivamente…
Sicuramente si tratta di un patrimonio linguistico-culturale assai rilevante. Ma, tra il bolognese e il budriese, esistono differenze?
Certamente. Si pensi che tra dialetto bolognese e budriese (quest’ultimo è comunque un dialetto di area bolognese) – lessico pressoché identico – esistono notevoli differenze di pronuncia e, quindi, di trascrizione fonetica. Ancora: sul piano morfologico il budriese ha cinque coniugazioni verbali, invece delle quattro del bolognese, perché la prima si sdoppia. Non parliamo, poi, di altri centri del territorio. Se il dialetto di Molinella è simile a quello di Budrio, a Medicina si parla un dialetto più simile al romagnolo. Oltre il Reno finiamo… nel ferrarese.
Lasciamo Casella al suo lavoro, convinti che, finché opererà lui, zirudèla e dialetto bolognese, pardon, budriese, avranno un valido angelo custode.
L’immagine: cartolina celebrativa in occasione della presentazione del Quaderno per il dialetto n. 6.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno I, n. 6, 15 giugno 2006)