Un vorticoso mescolarsi di vite, suoni, odori, sapori, colori, paesaggi, sparsi per il mondo, e rivissuti nelle “Memorie involontarie di un bevitore di vino”
Così il nostro direttore Rino Tripodi, col suo saggio Impasti e aromi di un’esistenza (forse) mancata: lo stile e i vini di Paolo Bonesso, introduce Le felicità nascoste. Memorie involontarie di un bevitore di vino (pp. 210, € 14,00) di Paolo Bonesso, quinta uscita della collana di narrativa La scacchiera di Babele delle Edizioni di LucidaMente.
“Come ogni mare, anche la nostra più segreta intimità, i nostri personali abissi, nascondono cose meravigliose e orride”.
La povertà e la sciatteria, lessicali e stilistiche, sono, purtroppo, le caratteristiche costanti di molta dell’attuale produzione di genere narrativo, che, forse, è il caso di cominciare a definire paraletteratura.
Leggendo le opere di Paolo Bonesso, pertanto, balza immediatamente agli occhi un suo elemento distintivo: una scrittura sontuosa, ricamata, quasi ricercata, capace di suggerire emozioni mediante lessico e ritmi, musicalità e sintassi, prima ancora che coi significati e le storie narrate.
Ecco un esempio tratto da Le felicità nascoste:
“Alla porta della ragione s’affacciavano tanti disperati pensieri, tutti viandanti senza casa. Non ne accolsi nemmeno uno e non consegnai ad alcuno di loro uno straccio di messaggio da portarle.
Non era ciò che lei aveva definito “rimozione forzata”, no, era ben altro: era il terribile disegno del destino, la previsione degli almanacchi che si coagulava in acqua sporca dell’intimità e tutto mi parve così lacero e osceno da non riuscire a resistere.
Quella notte tirai fuori la mia anima e la guardai con smarrimento e ribrezzo. Ne osservai le ferite senza lavarle: avrebbero dovuto rimanere lì, a piangere e urlare, come dingo ai margini del deserto, preda della fame e degli schiaffi del vento.
Avrei vomitato davanti ai miei occhi l’infamia degli inganni, il rovinoso balletto di dialettiche sterili, la vergogna delle promesse”.
La sonora liquidità e duttilità della prosa di Bonesso
Questa peculiarità dello scrittore era già emersa, in forme tumultuose, quasi enfatiche, nella sua opera d’esordio, Jiwe. Pietra d’Africa (Iride-Rubbettino, 2003).
Difatti, nella Prefazione a quel libro (Cuore di tenebra cent’anni dopo), noi stessi affermavamo: “La scrittura di Bonesso aderisce a un ritmo sconosciuto e a un misterioso pulsare interni ad essa, una sorta di universo autonomo: è vita biologica, è magma pulsante e incandescente, è l’attimo prima dell’orgasmo. Si spiegano in tal modo le accumulazioni di analogie, immagini, similitudini: dinamismo linguistico, brulichio di gemmazioni senza fine”.
Pure in questa nuova fatica, Le felicità nascoste. Memorie involontarie di un bevitore di vino, come in Jiwe, non mancano, specialmente nell’ultimo capitolo (Epilogo alcolico), il più lirico, il meno controllato, immagini forti e viscerali:
“Fu un figlio di verità quello che mi uscì dal petto lacerato. Fu autentica carne e autentica rivelazione. Più vero dei guaiti dei primordi, angelo e satana, compassione e frustate sulle ossa”.
Però, generalmente, in questo secondo “romanzo”, la prosa del narratore torinese si fa più misurata ed equilibrata.
Lo stile resta ricco di impasti e aromi, come i vini via via descritti nel libro, quasi protagonisti della narrazione, ma l’andamento oscilla tra toni e moti meno impetuosi, non violenti e viscerali, come spesso in Jiwe, per ondeggiare, più dolcemente, tra malinconia e memoria, affetti e disincanti, alla luce di una vita giunta quasi al proprio termine.
La natura: dal violento panismo alle malinconiche carezze
La natura, così come nel romanzo d’esordio, è spesso protagonista.
Le forme che assume possono essere apocalittiche:
“La tempesta durò otto lunghi anni, durante i quali quel cataclisma sconvolse totalmente la terra. Non c’era più una cosa al suo posto, tutto era stato sovvertito, ribaltato, scardinato, fatto a pezzi. Un’alluvione senza fine, alla quale seguirono quindici anni di siccità, nel corso dei quali il più piatto e salato dei deserti estese le proprie crepe popolate di scorpioni lungo tutta la costa, fin dentro al mare nel quale si spense”.
Quasi un sentimento panico percorre alcune pagine:
“Mi sento il mare in cui lei ha navigato, l’acqua che l’ha scoperta assetata e poi ristorata, il fuoco di legna che le ha scaldato i polpastrelli e il pagliericcio su cui ha riposato. Mi sento la montagna che ha scalato, la grotta dove ha trovato rifugio, infreddolita. Sono stato il suo lume fioco, la sua farfalla e il macigno che rotolava dalla montagna, la sua verità e il suo inganno, il suo nero di giorno”.
Talvolta un mirabile movimento, imprevedibile e inarrestabile, di luci, profumi, figure, venti e paesaggi, ci avvolge:
“Sarebbe stato un eterno d’essenze di luce; fiori straordinari di profumi, simili a vascelli slanciati, avrebbero disteso le loro corolle dentro il vento, proprio di fronte alle onde del mare africano che le aveva fatte nascere”.
Tuttavia, la presenza della natura è meno esotica e violenta che in Jiwe, e si manifesta con minore imponenza. I suoi elementi si rincorrono, con misteriosi, analogici, legami e pulsazioni (come un “vino con sentori di roccia soleggiata e di fieno”):
“La linea del collo era una pista per la luce sulla quale, dalla finestra socchiusa, s’abbatté più di metà della luna, per percorrerle il corpo fino ai fianchi, alle gambe e rimanere intorno a lei, come un serpente luminoso”.
Ecco una poetica staffetta tra gli elementi della natura:
“Quella notte c’era la luna e la luna illuminava un cespuglio e il cespuglio era morbido e morbide sentiva le carezze su di sé”.
La percezione di elementi sottilissimi, quasi impercettibili:
“Credevo di sentire anche lo sbuffo che fanno i funghi quando si aprono nelle notti di pioggia ed ero sicuro di percepire il molle crepitio dei loro copricapi che si spalancavano e lo schianto delle gocce di tempesta sulle foglie di castagno, quelle più alte, in cima alle chiome”.
E si può cogliere – anche nel ritmo – persino qualche richiamo montaliano, come il sole tiranno (cfr. le liriche più “mediterranee” di Ossi di seppia) e alcuni correlativi oggettivi di Spesso il male di vivere ho incontrato (“e la nuvola, e il falco alto levato”):
[…] una preghiera che ancora oggi ricordo, perché fu il mio primo colloquio con le nuvole, con il falco, con l’alito della terra, con quelle colline brulle strapazzate da un sole aggressivo”.
La natura prepotente del primo romanzo appare qui straziata da un’insidiosa malinconia.
Le memorie di un centenario
Il protagonista de Le felicità nascoste, infatti, è un uomo coi suoi ricordi, giunto alla soglia dei cento anni e prossimo a morire.
Memorabile l’incipit:
“Domani compio cento anni. Festeggerò da solo, come la vita ha scelto per me.
Ci sarà tanto silenzio intorno e voci di bambini dalla strada. Dalla finestra entrerà il mare, senza farmi paura.
Da molto tempo vivo su questa costa dolce e non ho fatto altro che tentare di dimenticare.
Ho aperto più volte il petto alla luna, sperando che assorbisse in sé ogni fallimento, portando lontano le tracce di quell’ansia un po’ tremolante che è stata, per lungo tempo, mia compagna di viaggio. […]
Ho deciso di celebrare il mio personale centenario ai margini della vita bevendo i vini migliori che ho gustato durante i giorni che mi hanno condotto fin qua, davanti a un canale lungo il quale sono sparpagliate molte isole”.
Per “aiutare” la memoria a riemergere tramite i sapori e gli odori del passato, egli, dunque, decide di sorseggiare dei vini fatti pervenire da ogni parte del mondo e che aveva gustato quand’era più giovane:
“Li voglio assaporare ancora una volta, per celebrare l’orizzonte violaceo che vedo dalla mia camera da letto”.
Il desiderio invincibile di godere della vita e dei suoi sapori traspare in molti brani, come il seguente:
“Sono sempre stato ossessionato dalla giovinezza e, soprattutto, dalla bellezza, l’unica virtù di questo mondo. L’ho cercata dappertutto, voluta, posseduta, bevuta, contemplata, divorata”.
Profumi, sapori, donne, luoghi visitati nel corso di innumerevoli viaggi, dominano i ricordi, ne costituiscono allo stesso tempo pretesto e sostanza.
Il tentennamento tra ricordi e oblio viene risolto da metafore forti (“Un ricordo mi ha preso alle spalle ed ha premuto forte contro il capo, all’altezza delle orecchie”; “I miei ricordi attendono di essere giustiziati, di svanire per sempre”).
La “cornice” del libro, pertanto, è costituita dal vecchio Paolo che ricorda il proprio passato: ogni capitolo è intitolato a un vino e alla sua regione d’origine e narra le vicende che riaffiorano pensando all’assaggio del vino, non necessariamente bevuto nel territorio di produzione o a esso vicino.
Una folla di personaggi – con una prevalenza di quelli femminili – si accavalla, con le loro storie che si sono intrecciate, per un tempo più o meno lungo, con quella del narratore. Figure enigmatiche, misteriose, non sempre ben delineate. Alcune chimeriche, quasi fantastiche, come quella dei contrabbandieri delle Ande.
Vicende (si pensi a Rosita, J.J., Uta, Abbas, Gabriella) spesso malinconiche, tristi, a volte tragiche, preannunciate da presagi e simboli di morte diffusi e disseminati qua e là prima della rivelazione finale.
Storie tutte riportate alla luce dalla memoria di un centenario morente. Quale valore di obiettività possono allora avere?
L’ambiguità della voce narrante
Il protagonista, infatti, è tutt’altro che delineato irrevocabilmente, e si muove entro un alone di ambiguità, di ambivalenza. I suoi ricordi sono sibillini.
Già il fatto che egli sia, al tempo stesso, io narrante, narratore interno-protagonista, e probabile alter ego dello scrittore, desta subito nel lettore qualche sospetto. Inoltre è un centenario, che ricorda dopo abbondanti bevute. Quale attendibilità possono avere le sue memorie?
Similmente al Zeno Cosini di Italo Svevo, è egocentrico, racconta senza un ordine cronologico o logico, le sue ricostruzioni sono inaffidabili: quanto non ha detto o trasformato? In questi casi, pure il non-detto conta quanto il detto.
E’ capace di vedere e annotare i sentimenti come da distante (nel tempo e nello spazio), ma non di viverli con pienezza ed energia: come gli “inetti” del Novecento, gode più del ricordo e della rievocazione della realtà che della realtà stessa.
Gli stessi titoli del libro sono ambigui come il protagonista. Perché le felicità sono nascoste? Perchè le memorie sono involontarie? E, ancora, perché tanto viaggiare per il mondo?
Come Davide, un personaggio dei suoi racconti, il centenario Paolo è interessato alle vicende umane, anzi “curioso”, ma è incapace di intervenire su di esse, anzi non rischia mai il coinvolgimento:
“Davide era attratto dalle stranezze. […] A volte entrava nelle loro vite e le “studiava”, come era solito dire lui, per un po’, fino a quando quella vertigine, quel vivere “a testa in giù” (altra sua espressione) diventava un’esperienza troppo forte anche per un esploratore d’animi come lui. Allora ritornava a percorrere sentieri più tranquilli e a navigare mari meno burrascosi. Ma quella bonaccia non faceva per lui. Passato qualche tempo, si rimetteva sulle tracce di qualche esistenza allo sbando e in quelle nuove tempeste ritrovava se stesso. Avere a che fare con quelle disperazioni, con quelle marginalità, gli dava una carica enorme. In lui non albergava alcun istinto salvifico, non voleva redimere nessuno. Ammirava la devianza, ne vedeva soltanto i risvolti poetici”.
Eppure, anche se soggettiva, la narrazione delle vicende del protagonista lascia trasparire le sue stesse debolezze, errori, meschinità.
Egli sa di essere stato freddo, come nel caso dell’incontro con Uta, dalla cui malattia, per paura o per viltà, sembra essersi voluto allontanare:
“Non avevo mai davvero sfiorato la morte e non avevo imparato la sua importantissima lezione. Lasciai scemare la passione, il ricordo, la voglia di incontrarla ancora”.
In un brano, poi, troviamo, attraverso una dolorosa illuminazione, la spiegazione del titolo dell’opera:
“Quella sera il mondo mi svelò un mistero: le felicità erano nascoste, tutte. Non arrivavano all’improvviso dal cielo o dall’erba; andavano cercate, vissute, trovate. All’improvviso capii molte cose e cessai di piangere, ma non perché fossi più sereno; semplicemente mi fece orrore la mia incapacità di scoprire le felicità là dove erano: tutte fuori di me. Erano negli altri, nei condor, nelle strade polverose, nei cespi gialli e nei cactus”.
Le felicità mancate
Altre riflessioni sulle felicità nascoste ci forniscono ulteriori chiarimenti:
“A volte ho domandato aiuto e nessuno mi ha ascoltato, ma più spesso sono stato io a essere cieco, sordo e muto; sono stato io a non sentire il profumo delle felicità nascoste, quelle che la vita aveva confezionato proprio per me. Le ho lasciate sfiorire senza arrampicarmi su un albero, sdraiarmi su un’aiuola, gettarmi dentro il fiume. Le ho lasciate scivolare lontano, come amori incompresi, appassiti, sfiniti”.
“Erano là, bastava intuirle, quelle piccole felicità nascoste, celate sotto ampie felci. Bastava cercarle. Invece rimanevo con la schiena contro il muro, a osservare la pioggia abbattersi sulla ringhiera. Il mio sguardo non andava mai oltre quella barriera d’acqua che sembrava un oceano verticale, pieno d’onde, di vento, di presagi, di tanti lontani sorrisi”.
Pertanto, le felicità più che nascoste, appaiono mancate. Il narratore, per una sorta di freddo, distaccato pudore, si è sempre trattenuto dall’immergersi appieno nel pirandelliano flusso della vita.
Una delle caratteristiche del protagonista, infatti, è proprio questa: l’anima del vecchio ancora sanguina e si duole della propria verginità. Non è mai riuscito a liberarsi della purezza e quindi non conosce l’abisso, la corruzione, la degenerazione. Pure questo è vissuto come un fallimento.
Talora può apparire che egli abbia fretta di finire qualche racconto, come una guida che, dopo avere interpretato alcuni geroglifici in una caverna, sorvoli sugli altri, lasciando un senso di incompiuto nelle persone che ha accompagnato. Ma, probabilmente, più che la fretta, a trasmettere il senso di incompletezza, è la paura che il vecchio ha avuto, durante tutta la sua vita, di penetrare davvero la realtà che l’ha circondato, temendo che in quelle profondità ci sarebbe stata la sua fine, il punto di non ritorno.
In tal modo, quelle che potevano essere inebrianti avventure di vita finiscono per assomigliare a sterili schiume (di vini?… di mari?…).
Il redde rationem di un’esistenza
Alla fin dei conti, pertanto, è percepibile in lui un senso di frustrazione (e di pentimento, forse sincero) per non essere stato in grado di vivere le felicità nascoste, ma altresì per non avere indagato in profondità le infelicità nascoste di alcuni personaggi, per avere attraversato la vita senza viverla.
Egli è consapevole dei propri limiti di “umanità”:
“Mi ero allenato al cinismo e mi ero convinto che mi avrebbe aiutato a sopravvivere”.
La sua esistenza si configura sotto il segno non solo dell’impotenza, ma anche della solitudine:
“Le ragazze che per anni frequentarono la mia vita avevano tutte un’identica caratteristica: erano donne alla deriva, perdute in mezzo al mare, aggrappate a un galleggiante di fortuna, a un rimasuglio di tronco. Non riuscii a salvarne nemmeno una, né loro salvarono me. A un certo punto affondavamo e, nonostante le urla e le promesse, affogavamo lontani”.
E del velleitarismo:
“Desideri smisurati, altissimi da graffiare l’assoluto, mal si conciliano con le brevi passioni e i grandi dolori di cui la vita è disseminata”.
Molti altri sono i rimpianti del personaggio:
“Avrei voluto scrivere libri bellissimi, letti da tante persone, pieni di dolore e di verità, di bellezza e di spavento; avrei desiderato inventare fiabe per i bambini ed essere innamorato delle loro madri. Avrei dato tutto per vivere un’esperienza spirituale altissima, con una persona altissima”.
“Ho lasciato fuggire le cose più belle, le ho piante in ritardo. Poi ho trascorso la vita continuando ad amarle, senza riuscire più a raggiungerle”.
“Avrei dovuto raccogliere tutte le lacrime e i sorrisi che avevo incontrato per strada, sulle navi, dentro i treni, avrei dovuto raccontare la vita di quella gente cortese, che parlava di ricette e voleva che i figli fossero felici.
Invece, cosa ho fatto? Mi sono tormentato, torturato, cercando cose sempre più alte, forse, ma tremendamente remote. E mentre il mondo viveva, sanguinava, rifioriva, io scendevo in una stanca agonia che, con l’andare del tempo, non sono più riuscito a contrastare. %5B…%5D Ma oggi per cosa potrei piangere? Per non avere voluto figli, per avere odiato troppo la vita, per avere cercato l’amore soltanto in giardini impossibili, lasciando appassire quelli che la vita mi donava a piene mani?
Dovrei confessare che ho inseguito sogni diversi dai miei, ho vissuto altre vite, esplorato altri orizzonti.
Ma quel sogno, il mio sogno, era davvero così nascosto? Davvero parlava un’altra lingua, si nascondeva al mio sguardo? Oppure non riuscivo a vederlo a causa della mia cecità?”.
In definitiva, la narrazione del vecchio – il libro – può configurarsi anche come un eccentrico pellegrinaggio espiatorio.
Le meraviglie del mondo entro l’alone del Male
Eppure domina una stupefazione palpitante per le mirabili, malinconiche pieghe dell’esistenza.
Le pagine sono soffiate di stupori, di emozioni intense e di pure ansie di conoscenza.
Paolo è un inesauribile inventore di schegge esistenziali, di florilegi di aloni. L’itinerario percorso è tenero e sonoro, musicale e accecante, sempre sfigurato e inondato di riflessi.
La narrazione risuona come una musica sincopata, persa tra illusione e crudeltà: una nota si eclissa, un’altra si leva impetuosa e traboccante di irradiazioni, coinvolgimenti, con arpeggi eclettici e instabili. Essa ha un effetto dilatatorio in quanto i tempi dei racconti non sempre coincidono coi tempi delle storie, e un movimento vitale le agita e le sublima.
Anche se, proprio quando il mondo appare circonfuso di colori abbacinanti, quasi in un impeto di colori impazziti, ecco che la concretezza e la solarità si trovano a dover fare i conti con i fantasmi e gli inganni. Spesso, allora, si avverte una cupa certezza: il buio accerchia l’esistenza, non consente le felicità, che risultano nascoste anche da questa presenza inquietante, celata eppure sempre presente, da cui un crudele senso di inganno e segnali di tristezza che si insinuano nel moto oscillante dei misteri.
I personaggi e le storie divengono favolose ondate di esistenze scomparse, allontanatesi nel tempo, più che nello spazio, sagome lontane, avvolte da una nebbia fredda e spietata. Le loro esistenze, come quella del protagonista, sembrano così sgocciolare in una scia luminosa di detriti.
Se escludiamo l’amore tra Marta e Iseldo, tutte le altre relazioni sentimentali riportate nel libro sono incompiute, infelici, interrotte. Non solo quelle del protagonista, ma pure quelle di altri personaggi, come Sophie e Bertrand: un alone misterioso ma maligno, una tenace, persistente, inspiegabile condanna, scaturita da invisibili leggi ancestrali, ombre contaminanti ed enigmatiche, negano la possibilità della felicità, che, in ultima analisi, è mancata anche quando non è più nascosta. Nulla da fare: la realtà è trafitta e lacerata da fenditure che strozzano le gioie umane.
Presa piena coscienza dell’incompiutezza della propria esistenza e dell’invincibile Male che avvolge il mondo, la conclusione del vecchio è un fortissimo, seppur forse tardivo, e quindi straziante, invito all’amore per gli altri e all’esplosione della vita e dei sensi, sul soverchiante sfondo del mare, grande simbolo del nostro inconscio e dell’utero, acqua sconfinata che ci proietta nel mondo e, morti, ci riaccoglie nel proprio grembo:
“Me ne vado incontro al mare, con i calzoni arrotolati e le caviglie nude. La mia pelle è vecchia, ma ancora percepisce la carezza delle alghe. Farò ancora una passeggiata sulla sabbia, in mezzo a nuove generazioni di granchi che mi balzeranno intorno ai piedi. Vado incontro al mare per abbracciarlo e farmi abbracciare e sarà il mare amato di Istanbul e Lisbona, sarà il mare delle grandi barriere coralline e delle baie minuscole, sarà il mare che c’era dentro agli occhi delle persone che mi hanno preso per mano, accompagnato, consolato. A loro dedico quest’ultima, faticosa discesa, questi passi senza ritorno, queste orme che lascia il mio estremo passaggio”.
Il sentiero finale del narratore è, quindi, puntato verso l’infinito, verso – come in un altro explicit, quello dell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo – “dentro, più dentro dove il mare è mare”.
(Rino Tripodi, Impasti e aromi di un’esistenza (forse) mancata: lo stile e i vini di Paolo Bonesso, Introduzione a Le felicità nascoste. Memorie involontarie di un bevitore di vino di Paolo Bonesso, Edizioni di LucidaMente)
L’immagine: particolare di Nudo di donna e bottiglie di vino (elaborazione digitale-stampa su tela e pittura a olio) di Tahimé “Flor” Bauer, dalla copertina del romanzo di Bonesso.
Claudia Mancuso
(LucidaMente, anno II, n. 6 EXTRA, 15 luglio 2007, supplemento al n. 19)