Uno studio italiano rivela che parlare costantemente un idioma straniero o il proprio dialetto contrasta l’insorgere della nota quanto devastante forma di demenza degenerativa, posticipando i primi sintomi fino a cinque anni
È una patologia insidiosa, che strappa i ricordi, la memoria, la capacità di essere autonomi. Ha un pesante impatto sociale, poiché richiede numerose risorse, ed è in costante aumento nel mondo. Stiamo parlando della malattia di Alzheimer-Perusini, o morbo di Alzheimer, una forma di demenza degenerativa primaria per la quale non si trova una cura definitiva. Tuttavia, la ricerca va avanti ed è recente la notizia che parlare più di una lingua ne contrasterebbe l’insorgenza.
Uno studio italiano, pubblicato sulla rivista scientifica statunitense Proceedings of the national academy of Sciences, ha infatti rivelato che essere bilingui rappresenta una valida difesa, ritardando l’esordio della demenza neurodegenerativa fino a ben cinque anni rispetto a chi parla una lingua sola e costituendo una sorta di “riserva cognitiva” contro la malattia. Un team di ricercatori – coordinato da Daniela Perani, docente universitaria e direttrice dell’Unità Neuroimaging molecolare e strutturale in vivo nell’uomo dell’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) dell’ospedale San Raffaele di Milano – ha analizzato 85 pazienti affetti da Alzheimer, la metà dei quali italiani monolingui e gli altri bilingui del Sud Tirolo, attraverso una Fdg-Pet. Ovvero una tomografia a emissione di positroni (particelle con massa uguale a quella degli elettroni, ma con carica di segno opposto, cioè positivo) con fluorodeossiglucosio. Essa permette di misurare il metabolismo cerebrale e la connettività funzionale tra strutture differenti del cervello.
Tra gli individui colpiti dalla malattia, e sotto la lente degli scienziati, i bilingui sono mediamente più vecchi di cinque anni, hanno ottenuto punteggi migliori in alcuni test di valutazione della memoria verbale e visuospaziale, ovvero nel riconoscere volti e luoghi, e hanno presentato sintomi meno intensi anche quando il loro metabolismo è risultato più danneggiato nelle zone cerebrali interessate dal morbo. Da qui la teoria, possiamo dire scientificamente provata, che il bilinguismo costituisca appunto una “riserva cognitiva” che ritarda l’insorgere della malattia e difende dal suo avanzamento, in quanto capace di compensarne gli effetti neurodegenerativi. «Parlando due lingue, si è costretti a uno switch continuo tra l’una e l’altra e questo avviene in modo indipendente rispetto a cultura, educazione e livello sociale dell’individuo», spiega al riguardo la professoressa Perani.
A fronte della perdita di strutture e funzioni necessarie, i meccanismi di compensazione sono rappresentati da una maggiore attività metabolica cerebrale del bilingue, precisamente nell’area coinvolta in attività cognitive complesse, quella frontale, oltre che da una più alta connettività tra controllo conoscitivo ed esecutivo. Sono poi stati confrontati i risultati di un questionario, costruito ad hoc e somministrato ai pazienti, con quelli della tomografia a emissione di positroni, ed è emerso che gli effetti sul cervello sono migliori laddove vengano utilizzati più idiomi. Conoscere due o più lingue, quindi, ma soprattutto praticarle con costanza durante il corso della vita, contrasterebbe il morbo di Alzheimer. «Questo dovrebbe suggerire alle politiche sociali degli interventi atti a promuovere e mantenere l’uso delle lingue e altrettanto dei dialetti nella popolazione» commenta la dottoressa Perani. Che spiega poi il concetto di “riserva cognitiva” distinguendolo da quello psicologico, che riguarda la “costruzione” della capacità mentale attraverso il proprio stile di vita, il proprio livello di cultura o il proprio lavoro.
Continua la studiosa: «Se usi tanto la tua capacità cognitiva ti assicuri una riserva maggiore. Diverso è il discorso della riserva cognitiva cerebrale, che è misurabile, come dimostriamo nello studio. Si tratta di modificazioni plastiche indotte nel cervello da vari aspetti favorenti, come possono essere appunto la cultura, l’educazione o il bilinguismo. Sottolineo che i vantaggi del parlare due lingue come difesa dall’Alzheimer, e anche da altre forme di demenza, sono assicurati al netto di altri fattori come livello culturale o socioeconomico. Inoltre, il discorso vale anche per i dialetti: essere bilingui non significa necessariamente parlare italiano e inglese o italiano e tedesco (come i pazienti altoatesini da noi studiati), ma anche italiano e dialetto della zona di provenienza. Per questo sarebbe importante attuare iniziative di difesa delle “parlate” regionali, che invece si perdono».
L’Alzheimer è una patologia progressivamente invalidante che si manifesta generalmente oltre i 65 anni di età, ma talvolta anche prima, e riguarda oggi quasi 500 mila persone in Italia e 26,6 milioni nel mondo, con una notevole prevalenza di donne colpite. Caratterizzata da perdita di memoria, disorientamento e incapacità di prendersi cura di sé e di riconoscere le persone vicine, accompagna alla morte, presentando un’aspettativa di vita dai tre ai nove anni dopo la diagnosi. Agisce su quanto di più delicato vi sia in un individuo, ovvero la sfera dei ricordi, degli affetti e delle emozioni, comportando un particolare tipo di sofferenza sul malato, che spesso nelle prime fasi si rende conto del proprio decorso degenerativo, e sulla famiglia, che vede il proprio caro isolarsi in uno stato di smarrimento, afasia e di sempre minore vitalità, molte volte a dispetto di un corpo ancora sano.
L’Alzheimer “consuma” letteralmente parti del cervello ma, come rilevato dall’esito confortante di questo studio italiano, nei soggetti che parlano più lingue o dialetti vi è un’ampia riserva che rallenta anche di un lustro la sua comparsa. Sebbene non siano chiare le cause né vi sia ancora una cura ufficiale che contrasti il morbo, la ricerca non si ferma e regala forza e speranza laddove regna talvolta la disperazione.
Altri articoli sul tema dell’Alzheimer comparsi su LucidaMente si possono visionare ai seguenti link: Alzheimer e benzodiazepine: il possibile legame, Il ruolo del rame nello sviluppo dell’Alzheimer.
Le immagini: foto generica e rilevazioni mediche di un cervello con Alzheimer confrontato con un cervello sano.
Maria Daniela Zavaroni
(LucidaMente, anno XII, n. 135, marzo 2017)