I due brevi, poetici, racconti che pubblichiamo di seguito sono opera della giornalista Emma Santo e si trovano pubblicati anche sul blog dell’autrice all’indirizzo. Fantasia e gioco si mescolano a una scelta meticolosa delle parole, di cui la scrittrice si serve per stupire e divertire.
Il risultato è un geniale www.lecronachediunernia.ilcannocchiale.itmélange di ironia e intelligenza, dimostrato dalla scoppiettante invenzione di neologismi e accostamenti di suoni. Il mondo di Dolly è così leggero, incontaminato e allegro che, terminata la lettura, non si può far a meno di desiderare di leggere ancora altre sue storie; si viene a provare, perciò, una vera e propria “astinenza da Dolly”.
E, forse, ora più che mai, tutti abbiamo un po’ bisogno di personaggi come lei.
Dolly del mare profondo
Dolly era una bambina come tante in un mondo come pochi, come uno a dire il vero, quello che l’aveva vista nascere in una casa con il tetto rosso fragola di bosco verde sotto un cielo blu cobalto pieno di nuvole bianche cobasse. Aveva degli amici immaginari che le davano del lei come se fosse una signora ma solo fino alle cinque, quando l’atmosfera si scaldava e finivano per darle del tè con l’accento e con i biscotti al burro come quelli scozzesi che le piacevano tanto perché bastava mangiarli per sentirsi cornamusa di poeti traditi dall’ispirazione, che da diva che cantava d’ira funesta cambiò aria e si fece chiamare casta.
Dolly aveva una fattoria piena zeppa di zappe e zappatori zoppi e di animali che rischiavano di finire nella zuppa mentre lei si divertiva a fare zapping sui canali trasmessi dal mare che non aveva mai visto perché possedeva solo il digitale terrestre e non acquatico.
Una notte, accadde che la realtà superò la fantasia e la fantasia superò l’immaginazione e l’immaginazione superò i sogni, che però riuscirono ad arrivare primi facendo lo sgambetto all’immaginazione e alla fantasia, le due sorelle uscite di senno e di sonno.
E mentre Dolly dormiva, la sua stanzetta stava diventando una stanzattera, la cucina faceva largo ad una cabina, il portone prendeva in mano la situazione e diventava un timone, il salone prendeva il largo e si tramutava in galeone, le finestre esclamarono “oiblò!”, e non ci sarebbero state le botte a bordo ma solo botti piene di succo di frutta all’ananasso di cuori che l’avrebbe data a bere ad un due di picche.
Quando si svegliò, Dolly e il mare si guardarono per la prima volta e lei restò a bocca aperta come un pesce fuor d’acqua ma senza pinne né fucili, solo con il suo colorato paio di occhiali. Era a un tuffo dalla vita che l’avrebbe resa donna con tutti i carismi, perché chiunque l’avesse amata l’avrebbe seguita in capo al mondo, in culo alla luna e sulla coda di una stella a quattro zampe e a un.due.tre. punte, che se ne metti una in più cambi le regole di un gioco che esiste dalla notte dei tempi remoti, dove la luce non è ma fu. Dolly fece un bel respiro profondo, mentre il mare tratteneva il vento.
Quando la classe è acqua [Dolly va a scuola]
Il mare era pieno di banchi. C’era il banco dei pesci, il banco dei coralli, il banco di piovra, e poiché Dolly era una bambina sedeva al banco loto, che la faceva giocare sempre anche se non vinceva per un petalo. Più di una volta, però, la piccola Dolly aveva fatto scena muta fingendosi un pesce tra i pesci e si era ritrovata dietro il banco dei pegni con due orecchie d’astice, perché un asino potrebbe nuotare solo in una leggenda metropolitana e in fondo al mare non ce n’erano di fermate.
L’alberoMaestro fece il suo ingresso trionfiale (una fiala per la caduta delle foglie, una per i ramitismi – reumatismi dei rami – e una fiala puzzolente, tanto per ridere senza senso, dato che per questo scherzetto l’olfatto gli partiva senza nemmeno salutare). Ogni volta che spiegava restavano tutti muti come pesci appunto, quelli che si portavano il quaderno con penna e calamaro.
Quel giorno, l’alberoMaestro spiegò la tabellina del due e la tabruttina del tre, illustrò la danza dei numeri che hanno l’aritmetica nel sangue, fece la moltiplicazione dei pesci perché trovare il pane sarebbe stato un miracolo da quelle parti e assegnò un problema di alghebra. Poi, passò all’italiano scritto italiano.
Fece un dettato su un dattero di mare che si aprì una ditta dove lavorava ad ore e divenne dittatore e dettò leggi e dette del dottore a chi era solo dotto ma non a ore per unire il duttile al dilettante e metterlo in una ditta di datteri dittatori come lui, finché qualcuno lo aprì in due mentre qualcun’altro gridava te lo avevo dittico, in una lingua morta chissà quando tanto che nessuno capì cosa stesse dicendo.
Dolly, però, preferiva di gran lunga le filastrocche. Con loro potevi rispondere per le rime senza offendere nessuno, tranne le rime stesse se te le dimenticavi, perché erano nate per essere ricordate a memoria di tempi immemori. E poi le piaceva la canzone che per fare un tavolo ci vuole il legno per fare il legno ci vuole l’albero ma quando arrivava a questo punto l’alberoMaestro chissà perché si arrabbiava e così finiva in punizione dietro al banco dei pegni con le orecchie d’astice, giurando a se stessa che la prossima volta per fare il legno ci sarebbe voluta l’ikea, dove lavorano quelli che l’idea se la fanno venire con la K e perciò poi funziona. Da quel banco, laggiù in fondo, Dolly guardava i suoi amici pesci e capì dal profondo del cuore e del mare che la classe non è acqua senza di loro.
L’immagine: Dolly (foto di Valerio Agolino).
Jessica Ingrami
(LM EXTRA n. 20, 15 aprile 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 52, aprile 2010)