“L’Italia s’è destra”? Al Festival di “Internazionale” di Ferrara si è discusso di crisi delle sinistre, del loro distacco dai ceti popolari e del conseguente trionfo di populisti e sovranisti
L’Italia s’è destra: questo il titolo del dibattito tenutosi la scorsa settimana all’interno del Festival di Internazionale, che dal 2007 ha luogo a Ferrara. All’incontro, avvenuto al Teatro comunale, hanno preso parte Lucia Annunziata, direttrice dell’Huffington Post e moderatrice dell’evento, e quattro intellettuali stranieri, esperti del panorama italiano: David Broder, storico britannico; Anne Branbergen, olandese, di De Groene Amsterdammer; Michael Braun, corrispondente italiano del quotidiano berlinese Die Tageszeitung, e il croato Inoslav Bešker, del Jutarnji List. Eccone un breve resoconto degli interventi, che crediamo interesseranno il lettore perché scavano a fondo nella crisi delle sinistre europee.
Perché il bipolarismo italiano non prevede la sinistra? La domanda è «già vecchia» ha ammesso l’Annunziata, che ha proseguito affermando: «Avremmo potuto discuterne dopo l’elezione di Trump, laddove l’America, come ha spesso fatto nel rapporto con il Vecchio Continente, ha preso il venticello europeo, l’ha caricato di testosterone e l’ha trasformato in un tornado». Si dice spesso, ha continuato, che la sinistra sia ormai diventata la rappresentanza delle élites; «in verità, più che delle élites, è la rappresentanza delle nuove classi intellettuali globalizzate». Il nuovo modello mondiale prevede fenomeni che con la politica hanno poco a che fare, come la tecnologia, la mancanza di frontiere nel commercio, megaprocessi tipo l’immigrazione o il cambiamento climatico. In questo sistema la sinistra ha faticato a muoversi, perché non ha tenuto conto del fatto che era come un treno: «Puoi stare di fronte, sulla locomotiva, e andare benissimo, ma purtroppo non vedere che stai perdendo i vagoni di coda».
Questi vagoni del treno, fuor di metafora, sono gli umili, base storica del suo elettorato. «Qual è la colpa della sinistra? – ha incalzato l’Annunziata – Non aver visto, non aver notato e non aver fatto nulla per i vagoni in fondo al treno che si sono staccati. Renzi ha fatto tutti i danni possibili e immaginabili all’interno di questo schema: il problema fondamentale è che ha sconnesso ulteriormente la sinistra dall’Italia. Politicamente ha fatto l’operazione di interrompere quella che Togliatti chiamava la “connessione sentimentale” con il paese».
Anche la lotta per dare dignità al lavoro, per le riforme, per i servizi pubblici, richiede in un certo senso un orizzonte utopistico, un modo di creare una controegemonia. Questo il pensiero del celebre storico inglese Eric Hobsbawm, scomparso nel 2012, che Daniel Broder ha chiamato in causa per spiegare come la perdita delle istanze di partecipazione collettiva sia una delle maggiori mancanze delle sinistre, non solo in Italia. Il problema è non riuscire a dare uno spazio di rappresentanza politica agli ultimi. D’altro canto, secondo Broder, non bisogna accettare un modello di pessimismo culturale secondo il quale la difficoltà è l’analfabetismo funzionale degli italiani. È importante invece superare questa strada a senso unico e trovare un modo di dialogare con chi guadagna 5 euro all’ora. Come sottolineato anche dall’Annunziata, il reddito di cittadinanza – i famosi 780 euro proposti dal ministro del Lavoro pentastellato Luigi Di Maio – non risolverebbero il problema della povertà, che coincide invece con una scarsa cittadinanza.
Senza negare la giustezza delle ragioni della vittoria della destra e dei Cinque Stelle, che Anne Branbergen segue da tempo, è importante assumere uno sguardo diverso, dimenticare le regole che conosciamo e dare la possibilità di vedere come i nuovi movimenti si stiano ponendo nel contesto politico. Fresca di un incontro con Alessandro Baricco (che la giornalista ha intervistato in occasione della stesura di The Game, ultimo romanzo dello scrittore), la Branbergen sottolinea che chi, come lei, è un «prodotto del secolo scorso» ha difficoltà nel capire le forme e il linguaggio della politica odierna, nella quale la sinistra non scompare ma assume altre forme.
Citando un episodio a detta della stessa Annunziata imbarazzante, il tedesco Michael Braun ha portato a esempio quella che per lui è una delle immagini simbolo della condizione della sinistra italiana, la segreteria del Pd riunita a Tor Bella Monaca: «’Sti membri della segreteria in gita sociale, tutti smarriti, che stanno lì con quelle facce, come a dire: “Che ci faccio qui?”. Poi si sentivano gli abitanti di Tor Bella Monaca, intervistati, che si facevano la stessa domanda: “Che ci fanno qui? Non li abbiamo mai visti!”». E qui il paradosso della sinistra «che vince ai Parioli e perde a Tor Bella Monaca» è davvero evidente. Anche i leader storici del Partito comunista erano di estrazione borghese e avevano una formazione intellettuale – i nomi che vengono fuori sono quelli di Aldo Natoli e Luciana Castellina –; ciò non toglie che parlassero «con il ladro e con la puttana senza giudizi morali. Si trattava di andare dagli ultimi e dire: tu sei cittadino come me».
Quella di oggi è una sinistra che ha studiato, che parla le lingue, che si trova a suo agio nella globalizzazione, che viaggia, che guarda ai precari, a coloro che lavorano nei servizi, come a qualcosa di altro da sé. E questo non solo in Italia. «Pensate alla Clinton durante la campagna elettorale, quando, parlando degli operai bianchi arrabbiati, usava l’aggettivo deplorables, “i deplorabili”, come a dire: “Non mi interessate più”». Ma se la ragione sociale della sinistra era o l’abolizione del capitalismo o la sua riforma, l’unica via è tornare a una sana critica di quello che anche la sinistra ha votato e prodotto. Se così non fosse, «può anche chiudere bottega», aggiunge caustico Braun.
Il dibattito si è poi spostato sulla questione se il sovranismo sia necessariamente prodromo del fascismo e se, in ultima istanza, Matteo Salvini si possa definire fascista. La risposta che hanno fornito i giornalisti è unanimemente negativa; viene piuttosto sottolineata l’inevitabilità di un certo periodo storico: «It’s Salvini time», ha affermato la Branbergen, citando contemporaneamente la famosa copertina di Time e una sua precedente analisi sul leader leghista. Ancora Braun ha sostenuto che il capo del Carroccio non sia un fascista – «Il fascismo è legato intimamente alla violenza, alle camice nere, all’annientamento dell’avversario politico, alla dittatura in definitiva» – ma che certamente egli giochi con i concetti della democrazia e che sia, in un certo senso, fratello del leader ungherese Viktor Orbán e del suo concetto di «democrazia illiberale»: «Vogliono farci votare, però comandare loro e orientare il voto restringendo fortissimamente le opposizioni, e questo è senz’altro un grave pericolo, anche se non lo possiamo né dobbiamo chiamare fascismo».
Le immagini: allegorie della crisi delle sinistre e il Teatro comunale di Ferrara fotografato dall’autrice.
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XIII, n. 154, ottobre 2018)