Quindici storie oscillanti tra un piano soprannaturale e un crudo realismo; da cui un’atmosfera straniata e affascinante. Vicende che il lettore fatica a decifrare, in attesa dell’inaspettato e del disvelamento di fantasmi dell’io, delle sorprese e dei “tranelli” escogitati dalla “crudeltà” dell’autore. Stiamo parlando de Il silenzio dei sogni e altri racconti (inEdition editrice/Collane di LucidaMente, pp. 164, euro 14,00) di Marco Palone, settimo volumetto della collana di narrativa Nerissima, diretta da Rino Tripodi.
Al contrario di Ernest Hemingway, che scrisse racconti basati sul solo dialogo, Palone, ne Il ladro – racconto che proponiamo di seguito per intero al lettore – fa “affrontare/confrontare” due persone per lunghissimi minuti, senza che esse si scambino una parola. Il rapporto che si crea appare sadomasochistico. Forse, al pari dei fiumi di «futili frasi sincopate dei messaggi via chat o attraverso cellulare», scrive Tripodi nella sua Prefazione, «si tratta di due facce della stessa medaglia che caratterizza il nostro mondo attuale: silenzio o ridondanza e banalità della parola stanno entrambe, paradossalmente, a rappresentare l’assoluta afasia, la totale impossibilità di stabilire una benché minima relazione umana – per non dire di comunicare sentimenti ed emozioni sincere -, da parte dell’uomo odierno».
Il racconto, molto ben costruito, assume di volta in volta, nel giro di poche righe, il punto di vista dei due unici personaggi. La tensione è altissima…
La canna della pistola era puntata sulla sagoma del ladro.
Pensava di trovare la casa vuota, per poterla derubare tranquillamente. Ma, a differenza di quello che accadeva normalmente, quella mattina non erano usciti tutti da casa.
Era lì, davanti al mobile basso della televisione, a frugare nei cassetti. Se lo trovava davanti, bloccato in una posizione scomoda: chino e semi accovacciato, con gli occhi sbarrati che fissavano da sotto in su. Anche un inesperto avrebbe colpito facilmente i punti vitali da quella posizione.
Rimasero fermi, nessuno dei due fiatava. L’appartamento era immerso nel silenzio.
Stava smaltendo gli ultimi scampoli di sonno: erano quasi le nove. Da più di un’ora se ne erano andati tutti, come ogni mattina, perciò quei forti rumori dalla cucina l’allarmarono. Nel cassetto del comodino c’era una pistola. Le visite dei ladri si erano fatte frequenti nel palazzo – e c’erano delle tracce di tentativi di scasso anche nel loro appartamento – così avevano deciso di correre ai ripari per evitare di essere colti alla sprovvista, come era invece accaduto a una coppia di conoscenti.
Respirava nervosamente rimanendo accovacciato; anche se la posizione gli era particolarmente scomoda, non osava muoversi. Guardava verso l’alto, ma al massimo riusciva a fissare la canna della pistola e la mano che la teneva. Certo non si aspettava di essere preso di sorpresa così… da una donna. Evidentemente aveva preso la pistola ed era arrivata in silenzio, camminando cautamente sulla moquette, per poi pararglisi davanti. Aveva la camicia da notte raggrinzita addosso che lasciava scoperte le gambe e i piedi nudi. Si vedeva qualche ciocca di capelli che scendeva scomposta sulle spalle.
Era un indiano, o cingalese, anche se avrebbe avuto qualche difficoltà a individuare la provenienza geografica dei cingalesi; ma veniva su per giù da quelle parti. La pelle era bruno-scura, i capelli erano nero corvino, la corporatura minuta. Se ne stava lì, accovacciato come un rospo scoperto dietro una pianta acquatica. Aveva avuto ragione suo marito a darle lezioni di tiro e a farle prendere il porto d’armi. Lei, però, non aveva mai puntato a un bersaglio vivo. Lui era vivo, ma immobile, respirava piano e non osava alzare lo sguardo, se ne stava come una bestia braccata, che alla fine della fuga viene costretta all’angolo dai suoi persecutori, inerme. «Non muoverti».
Lui rimase immobile, ma involontariamente cercò il viso di chi gli impartiva quell’ordine. Alzò lo sguardo e incontrò gli occhi di lei che si piantarono nei suoi, anche il revolver si abbassò a mirare più al centro del suo corpo. Avrebbe voluto arrendersi, chiederle di lasciarlo andare, alzare le mani lentamente in segno di resa, ma quella pistola puntata addosso lo paralizzava, temeva che qualsiasi mossa sarebbe stata brusca, e quindi interpretata come un gesto aggressivo.
Aveva le spalle e le braccia scoperte che lasciavano intravvedere la muscolatura nervosa e la pelle perfettamente liscia e bruna. Adesso lo fissava e vide le pupille dilatate in mezzo al bianco degli occhi. Respirava più profondamente: quello del torace era l’unico movimento che riusciva a fare in quella lunghissima fila di secondi. Doveva essere un ragazzo di circa 24 anni. Anche se per gli orientali è sempre difficile intuire l’età. Un ragazzino, un po’ più grande di suo figlio maggiore. La traiettoria della pistola era tesa e puntava precisamente al centro del torace. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, cercava le parole, ma proprio non sapeva cosa dire. Rimproverarlo, insultarlo?
«Non te l’aspettavi? Bastardo! Questa volta ti è andata male, non come quando avete fatto fuori quei poveracci del villino di fronte? Ma che cerchi? Che ci sei venuto a fare in questo paese, a rubare?».
Non pronunciò nessuna di queste parole, rimase immobile in quel gesto, con il braccio teso e la pistola puntata dritta e stretta nella mano, con l’indice contratto sul grilletto.
La vedeva in volto e notò qualche corrugamento improvviso sulla sua fronte e ai lati degli occhi, notò anche un respiro più pesante, quasi uno sbuffo. Siccome aveva deciso di non muoversi, pensò che l’unica cosa da fare fosse, prima di tutto, mantenere la calma. Era come quando da piccolo giocava con i suoi amici del villaggio, a nascondersi nel vecchio forte inglese. Doveva imparare a respirare piano, in modo da non farsi sentire dal suo inseguitore, semmai fosse entrato nella stanza in cui si nascondeva. Una volta un sadhu gli insegnò proprio a controllare il battito del cuore calmando il respiro. Provò a respirare lentamente, e poi piano per placare il battito che impazzava nel torace, che lei, in quel silenzio, avrebbe potuto addirittura percepire.
Lei aspettava una sua mossa, una sua parola, un qualsiasi gesto: che cosa bisognava dire o fare in questi casi? L’unica cosa che le riusciva di fare era tenere dritta la pistola e tendere fino all’ultimo muscolo, pronta a una reazione qualsiasi che, però, al momento non sapeva immaginare.
Senza parlare, decise di affrontare lo sguardo di lei. Non sapeva parlare bene l’italiano, se la sarebbe cavata meglio a implorare nella sua lingua, o nel dialetto della sue parti. Le parole sono importanti, spostano le montagne, cambiano i cuori. Avrebbe potuto dirle che non voleva farle del male, che non era armato, che se ne sarebbe andato senza farle del male… Il linguaggio del viso però, lei, lo poteva capire. Allora cominciò a lavorare sulla sua espressione facciale, cercando di mutarla lentamente, addolcirla, togliere le tensioni dal contorno della bocca e dallo sguardo. Anche lei si sarebbe rassicurata, avrebbe notato la sua espressione non aggressiva, avrebbe capito che era un povero diavolo mandato a rubare da delinquenti che lo spingevano a fare brutte cose, cose che non aveva mai fatto nel suo paese, ma che qui doveva fare, perché c’erano le regole. I soldi che guadagnava facendo le pulizie non bastavano per i delinquenti che avevano organizzato il suo lungo viaggio di deportazione. Lentamente continuava ad addolcire il suo sguardo e, allo stesso tempo, si sforzava di comunicare la sua costernazione, la sua sottomissione e la sua umiliazione.
L’indiano, o il cingalese, ora le sorrideva quasi. Forse stava per balzare come una tigre da quella posizione, o stava tentando qualche diversivo, o chissà cosa diamine aveva in mente quel delinquente. Rimase sorpresa per la calma e la freddezza con cui il ladro – colto in flagrante – non aveva fatto e detto assolutamente nulla. Doveva essere esperto e astuto, a dispetto dell’età. Gli sarà capitato altre volte, ed evidentemente la tattica aveva avuto i suoi risultati. Prima di essere colta alla sprovvista pensò che fosse il caso di sparare. Ma non aveva mai ucciso un uomo. Al massimo una volta aveva ucciso un topo a colpi di zoccoli nella casa di campagna della nonna, quand’era bambina. Non aveva mai ucciso un essere vivente così grande, che respirava, pensava davanti a lei, aveva del sangue caldo come il suo. Ma l’arma che aveva in mano l’avrebbe ridotto a una massa inerte di carne. Sarebbe diventato una cosa morta da portare via. Lei l’avrebbe ucciso, avrebbe troncato la sua esistenza, tutti i suoi ricordi, le sue esperienze, tutto ciò che il ladro aveva detto e fatto nella sua vita, sarebbero appartenuti a un morto, ad uno che non sta più al mondo, mentre lei ci stava e se ne sentiva parte attiva, forse mai come in quel momento, in quella serie interminabile di secondi in cui teneva puntata la pistola. Quale altra poteva essere la via d’uscita? Lui non si muoveva e lei, che non aveva ancora elaborato la decisione giusta, rimaneva paralizzata, esattamente come lui. Man mano che i minuti passavano, aumentavano gli elementi di somiglianza; il respiro, per esempio, prendeva lentamente lo stesso ritmo, e così il battito del cuore, e così lo sguardo. L’unica cosa che li distingueva nettamente era che lei aveva in mano la pistola. Quasi quasi la distensione dell’espressione del viso di lui si stava riflettendo anche sul viso di lei, che sembrava aver accolto quella proposta di tregua non dichiarata.
Ora che lei sembrava aver accolto il suo invito alla distensione, poteva essere il momento giusto per offrirle la sua completa capitolazione. Non c’era niente da fare. Lui non era mai stato un duro e il ruolo del duro non gli veniva spontaneo. Pensò di fare quello che sapeva fare meglio e che riteneva più naturale: arrendersi. Qualsiasi altra reazione poteva essere fraintesa e lei aveva in mano un pistola, la teneva con sicurezza e la sapeva probabilmente usare. La strada che aveva intrapreso, seppure su istigazione, lo aveva portato a questo vicolo cieco, a questa conclusione. Tutto sbagliato! Non avrebbe dovuto seguire i suoi connazionali, più scaltri nei furti. Aveva bisogno dei soldi e subito, e la fretta lo aveva portato a cercare guadagni più veloci di quelli che otteneva facendo le pulizie nelle case. Ma i guadagni veloci non valevano la sua intera vita, aveva perso di vista il senso delle cose. Quindi pensò che l’unica mossa da fare sarebbe stata quella di assumere la posizione più adatta all’espressione della sottomissione: abbassare lo sguardo, chinare la testa, piegare la schiena e provare a dire le uniche parole in italiano con le quali poteva esprimere la sua umiliazione, la sua richiesta di aver salva la vita.
Il colpo l’avrebbe sicuramente freddato, questo era un fatto.
Avrebbe avuto tutte le scusanti della legge: legittima difesa…
«Ma no, Vostro Onore, si tratta di eccesso di legittima difesa. Non è dimostrabile che il defunto aveva intenzioni ostili verso l’accusata: non era armato».
«Assolutamente no! Poteva aggredirla, ed ucciderla anche con le mani nude, per non essere scoperto. La coppia uccisa nel villino di fronte era stata trucidata da un ladro, che probabilmente ha preferito eliminare i testimoni. Come faceva mia moglie a sapere se il ladro l’avrebbe risparmiata? “Cosa conta di più?” si è detta mia moglie, la mia sopravvivenza o quella di un ladro, che si introduce in casa mia, con chissà quali intenzioni?».
«Ha fatto un movimento brusco, stava per saltarmi addosso quando ho sparato, mi avrebbe aggredito alla gola, o mi avrebbe violentato, o avrebbe potuto prendere l’attizzatoio del caminetto… Che cosa dovevo fare, Vostro Onore?».
«La signora ha agito in modo esagerato, la sua non è autodifesa, ma offesa, ha sparato su un uomo in ginocchio…».
Lui era riuscito senza movimenti bruschi ad assumere la posizione che voleva, si era praticamente prostrato, con la fronte che quasi sfiorava la moquette.
Aveva cominciato a muoversi, e lei non faceva nulla, sembrava che stesse per inginocchiarsi: effettivamente la posizione in cui era rimasto paralizzato doveva essere parecchio scomoda. Adesso era in ginocchio con la fronte che si avvicinava al pavimento. Lei era diventata l’arbitro assoluto dell’esistenza di quell’essere, che in un certo senso ora le apparteneva, ne era diventata padrona. Gli avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa, gli avrebbe potuto far fare qualsiasi cosa. Quello che la rendeva invulnerabile e onnipotente era la pistola che teneva in mano, con il dito sempre più contratto sul grilletto.
Nel silenzio dell’appartamento si udì il colpo sordo di uno sparo.
(Marco Palone, Il ladro, ne Il silenzio dei sogni e altri racconti, Prefazione di Rino Tripodi, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: Praeitis (1907) (1907), opera del magico pittore lituano Mikalojus Konstantinas; iurlionis (Varna, 22 settembre 1875 – Pustelnik, 10 aprile 1911), che illustra la copertina del volumetto di Marco Palone.
Viviana Viviani
(LM EXTRA n. 22, 15 ottobre 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 58, ottobre 2010)