Gli autoscatti nell’epoca dei social e dell’autocompiacimento a tutti i costi
«Siamo l’esercito del selfie, / di chi si abbronza con l’iphone» cantava Arisa in un tormentone musicale della scorsa estate. Per quei pochi che ancora non sanno cosa sia, il selfie – forse la più fastidiosa tra le mode degli ultimi anni – è un autoscatto fatto con lo smartphone e pubblicato sui propri profili social (vedi anche Il selfie: ritratto autentico o maschera della nostra identità? e “Selfie”: moda o mania? Malattia!). In altre parole, il trionfo dell’egocentrismo. Adesso che Instagram, uno dei social media più popolari, soprattutto tra i più giovani, ha inserito la nuova funzione «Ritratto», ne vedremo delle belle (o delle brutte, a seconda dei punti di vista).
La necessità di lasciare delle immagini di se stessi non è certo una novità: sin dall’antichità, i monarchi, le famiglie nobili, i personaggi illustri, si facevano ritrarre, anche svariate volte nel corso della loro vita, meglio se da pittori famosi, per celebrare la propria persona. Ai ritratti sono succedute le fotografie, che gradualmente li hanno sostituiti, ma ne hanno mantenuto la funzione. Con gli smartphone e i social media la situazione ci è leggermente sfuggita di mano. Al di là del fatto che ormai siamo abituati a fotografare (e condividere) qualunque cosa facciamo o mangiamo e qualunque luogo visitiamo, il narcisismo legato ai propri autoritratti è ormai fuori controllo. Ognuno di noi, in qualunque posto, dai luoghi d’arte ai ristoranti, avrà visto giovani (e meno giovani) con il telefonino in mano e la tipica espressione da selfie intenti a scattarsi primi piani da postare sui propri profili.
Per carità, non c’è nulla di sbagliato a farsi delle fotografie e a condividerle con i propri amici. Il problema sorge quando non si può iniziare una cena se prima non si è scattato il selfie rituale (per far vedere agli altri cosa stiamo facendo e quanto siamo felici), oppure se non ci godiamo le bellezze della natura o culturali perché siamo troppo impegnati a cercare la luce migliore o il filtro più adatto.
Il selfie – la parola è abusata, ma non esiste un sinonimo valido – è utilizzato anche come strumento di denuncia: in svariate occasioni – non ultima quella verificatasi qualche tempo fa per protestare contro l’uso di armi chimiche durante la guerra in Siria – ha riscosso molto successo, soprattutto tra i vip, la tendenza a farsi delle foto da postare sui propri profili Facebook, Instagram, Twitter ecc., correlate da hashtag studiati ad hoc, per contestare qualcosa o per attirare l’attenzione su qualche argomento. Se l’intento è apparentemente nobile, la domanda sorge spontanea: che sia solo un pretesto per farsi un po’ di pubblicità? Non sarebbe forse più utile indurre alla riflessione su alcuni temi intervenendo anche in qualche altro modo più incisivo? Le campagne sui social sono sicuramente uno strumento potente per attirare l’attenzione su alcuni argomenti o avvenimenti, ma dovrebbero essere collegate anche ad altre azioni. Il solo selfie, oltre a essere una via troppo comoda, può puzzare di puro egocentrismo.
Non tutti i selfie vengono per nuocere e i social non sono certamente il male assoluto (vedi Il cellulare, le sue vibrazioni… è la felicità?): non è lo strumento in sé a essere sbagliato, ma è l’uso che se ne fa. Il selfie rientra nella più ampia tendenza che i social media, da potenziali strumenti di comunicazione e informazione, stanno assumendo: strumenti di autocelebrazione che rispondono alla necessità di farsi notare a tutti i costi e all’imperativo «se non condividi, non esisti».
Farsi un selfie è una dichiarazione ulteriore e più forte: non solo condivido, quindi esisto, ma ci metto pure la faccia. Esistono le istruzioni su come farsi i selfie, i selfie stick (le aste telescopiche utilizzate per farsi autoscatti con smartphone e tablet) vanno a ruba… la moda è esplosa e colpisce tutti, dai più piccoli ai più anziani, e sembra inarrestabile. Non resta che chiedersi dove porterà tutto questo narcisismo gratuito. Forse i nativi digitali fra qualche anno decideranno che tutta questa condivisione di se stessi sarà roba passata di moda e potremo tornare a godere delle gioie della vita senza per forza doverle condividere online. Ai posteri l’ardua sentenza.
Elena Giuntoli
(LucidaMente, anno XIII, n. 150, giugno 2018)