L’insieme di tutti i copyright, delle grandi case editrici e discografiche, delle major di Hollywood, della Microsoft, o di istituzioni come la Siae, hanno reso la pirateria un atto illegale, associandola alle razzie compiute dai “ladri di mare” ed etichettando come “pirati” coloro che si appropriano, senza corrispondere denaro, di materiale altrui. In realtà, dietro ad alcuni comportamenti bollati come “crimini” c’è un profondo senso di giustizia, di libertà e di condivisione: «Scambiare un file su internet – afferma Gubitosa – è un gesto fondamentale di solidarietà umana equivalente a prestarsi lo zucchero tra vicini di casa».
Nella società dell’informazione il valore e il successo di un bene artistico o concettuale è sicuramente determinato dalla sua diffusione: un libro, un brano musicale o un programma informatico hanno importanza proporzionale al numero di persone che ne vengono a conoscenza e ne usufruiscono. Proprio per questo cade la necessità di tassare ogni forma di distribuzione di queste opere, in quanto la libera circolazione di idee riesce sempre e comunque a produrre un vantaggio per chi ha dato vita a quelle idee, anche se in modo indiretto e non immediato.
Non solo musica: la pirateria si evolve
Negli anni Settanta diventava famosa quella dell’etere con radio e televisioni indipendenti. Successivamente diventò pirateria anche scaricare software e musica con programmi disponibili online.
Oggi si parla soprattutto di pirateria del cibo. La materia vivente presente sul nostro pianeta è stata creata senza brevetti, proprietari e regolamentazioni. Accordi commerciali o contratti di vendita che limitino il diritto dei contadini a disporre liberamente del proprio territorio è un sopruso: «Il copyright sul codice genetico della fauna e della flora – assicura l’autore – è di Dio, Allah, Budda, Jahvè, o in alternativa di nessuno, ma non può essere di certo rivendicato da un privato o da un’azienda».
La nuova frontiera del guadagno passa per la manipolazione genetica di piante e semi: nuove aziende biotech attingono ai serbatoi di biodiversità dei paesi impoveriti per brevettare nuove combinazioni genetiche, spacciando per “scoperte scientifiche” quelle che in realtà sono semplici ricombinazioni di vegetali diversi. Il fine è quello di imporre una tassa, ovviamente perenne, per chiunque voglia riutilizzare i “super semi” nati dalle sperimentazioni di laboratorio, che devono essere acquistati solo dagli “inventori” a ogni nuovo raccolto.
Il colmo: popolazioni indigene, espropriate della loro biodiversità, per continuare a usare prodotti tradizionali, dovranno pagare il “pizzo” ad aziende che non hanno inventato nulla di nuovo. Oppure esiste il rischio di vedersi condannati alla prigione per aver conservato semi delle piante biotech con l’intenzione di riutilizzarli nella stagione successiva, come è successo a un produttore statunitense di soia.
Seed savers
I “Custodi dei semi” sono contadini che, in tutto il mondo, tutelano e proteggono le specie a rischio conservando i semi rari prima che scompaiano, battendosi contro il pensiero unico delle monoculture e lanciando un forte allarme sul pericolo di “erosione genetica” a danno dei nostri ecosistemi. Le piante meno ambite dal mercato sono quelle che rischiamo di non trovare più e sono proprio quelle che i Seed savers coltivano a proprie spese nelle loro strutture: cavoli, cereali, lattughe, legumi, patate, peperoni e pomodori.
La loro lotta non finisce con la salvaguardia degli ortaggi, ma prosegue con la tutela delle tradizioni gastronomiche locali: se tutti avessimo dato retta alle leggi comunitarie che favoriscono il mercato europeo e che prevedono ambienti asettici e superfici in acciaio, difficilmente avremmo continuato a veder prodotti formaggi come l’Ambra di Talamello stagionato nelle fosse di tufo o il Lardo di Colonnata che nasce nelle conche di marmo delle Alpi Apuane.
Pirateria della salute
Il diritto all’autodeterminazione dei popoli comprende anche il diritto a garantire con ogni mezzo necessario la propria salute e la propria sopravvivenza. Oggi questa facoltà è minacciata dalla lobby delle multinazionali farmaceutiche, composta da aziende private orientate esclusivamente al profitto. I pirati dei farmaci cercano il modo per produrre a basso costo le terapie che potrebbero salvare milioni di vite umane, come nel caso dell’Aids.
Il pirata più famoso al mondo è Nelson Mandela che, nel 1997, sfidò i brevetti delle più grosse case farmaceutiche firmando una legge che avrebbe consentito al Sudafrica di far ricorso “all’importazione parallela”, ovvero all’introduzione di farmaci antivirali da paesi che li producono al prezzo più basso, e alla “registrazione forzata”, vale a dire la produzione interna di medicinali di cui il proprio Paese necessita, riconoscendo un contributo forfettario ai detentori dei brevetti. Questo affronto trascinò il governo sudafricano in tribunale; fortunatamente l’opinione pubblica mondiale appoggiò così tenacemente l’azione di Mandela che le accuse vennero ritirate.
Robin Hood farmaceutici
Oggi sappiamo che i brevetti non tutelano i cittadini, ma il profitto delle aziende. E ormai sappiamo anche che la ricerca sui farmaci preferisce concentrarsi sulle malattie “più redditizie”, cioè quelle che colpiscono i paesi più ricchi, anziché su quelle più diffuse.
La speranza che la scienza torni a essere al servizio delle persone arriva dall’esempio di alcuni grandi uomini che credevano nella pirateria farmaceutica, come Alexander Fleming, che rifiutò di brevettare la penicillina dopo averla scoperta, o Jonas Salk, inventore del primo vaccino contro la poliomielite, che, alla domanda sul proprietario del brevetto, rispose: «Io direi che appartiene alla gente. Non c’è brevetto, lei può brevettare il sole?».
L’informazione vuole essere libera
Originariamente, la concessione agli autori di un copyright temporaneo sulle loro opere prevedeva che alla fine di un ragionevole intervallo di tempo qualunque opera sarebbe diventata parte della cultura universale liberamente accessibile e utilizzabile. In principio, il periodo concesso agli autori per trarre profitto dalle loro opere era inferiore ai trent’anni, ma ora si è spinto, solo per i film, fino a centoventi anni!
Un approccio equilibrato ai “diritti d’autore” dovrebbe punire solamente le copie non autorizzate fatte a scopo di lucro, per creare mercati paralleli destinati alla vendita delle opere di ingegno, e non il libero scambio di materiale ad uso personale. La pirateria non è solo uno strumento di condivisione dell’arte, ma è anche un antidoto contro la censura e un potentissimo strumento di autodifesa contro la cancellazione del passato.
E alla domanda canzonatoria di un amico: «Ma scaricare da internet non è come rubare in un negozio di dischi?», Gubitosa risponde: «Al massimo è un riequilibrio autogestito dei prezzi del mercato. […] Chiamiamolo intervento anti-inflazionistico e la pirateria è solo uno strumento di fratellanza universale».
L’immagine: la copertina del libro di Carlo Gubitosa.
Jessica Ingrami
(LucidaMente, anno V, n. 50, febbraio 2010)