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Home STORIA

Liberazione: alcune storie (più o meno note) della Resistenza in Emilia

Sara Spimpolo by Sara Spimpolo
2 Aprile 2018
in STORIA, TEMATICHE CIVILI
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Il prossimo 25 aprile si celebrerà il settantatreesimo anniversario della riconquista della libertà dell’Italia dal regime fascista e dall’occupazione nazista. È l’occasione giusta per ricordare fatti e personaggi di un’epoca tragica

Reggio Emilia, Bologna, Ferrara, e dintorni erano, negli anni della seconda guerra mondiale, zone cruciali nell’ambito dell’occupazione nazi-fascista della penisola, sia per la loro centralità nel sistema delle comunicazioni, che per la loro posizione di retrovia della “Linea gotica”. Come tali hanno pagato un alto contributo di sangue alla causa per la libertà dalla dittatura. Innumerevoli i casi di atrocità e massacri compiuti da tedeschi e repubblichini in queste aree, ai quali fanno seguito le altrettante molteplici storie di resistenza partigiana.

20-liberazione-manifesto-sindaco-dozzaÈ nazionalmente nota la storia della “strage di Marzabotto” (o “eccidio di Monte Sole”), perpetrata ad opera delle SS tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 tra i comuni del Bolognese Grizzana Morandi, Monzuno e, appunto, Marzabotto. In quello che oggi viene riconosciuto come uno dei più gravi crimini di guerra di quel periodo, persero la vita circa 1.462 civili. Altrettanto conosciuta è la vicenda che portò alla morte di Irma “Mimma” Bandiera, la prima tra le donne bolognesi ad arruolarsi partigiana, torturata e uccisa nell’agosto del 1944. Il suo bel volto sorridente è ormai consolidato nella memoria collettiva come simbolo di coloro che offrirono «libertà e giovinezza per la vita e il riscatto del popolo e dell’Italia» (come si legge nella lapide affissa in sua memoria nella via di Bologna a lei intitolata). Il suo corpo sfregiato fu abbandonato in una delle vie adiacenti alla sua abitazione, secondo la pratica, largamente usata dai fascisti, di esporre i corpi dei partigiani uccisi nelle piazze o lungo le vie cittadine, come monito per tutta la popolazione.

Il simbolo di questa macabra usanza divenne piazza Nettuno, dove era infatti possibile leggere, sul muro esterno del palazzo del comune, l’ironica frase “luogo di ristoro per partigiani”. Al nome di “Mimma” viene usualmente associato quello di un’altra bolognese, la domestica e attivista Edera Francesca De Giovanni – uccisa nel 1944 – che si dice abbia urlato al proprio plotone d’esecuzione di tremare impaurito davanti al suo coraggio. La strada adiacente a piazza Nettuno fu teatro di un’ulteriore storia di sangue: quella del giovanissimo Anteo Zamboni, che nell’ottobre del 1926 tentò di uccidere Benito Mussolini e, catturato, morì a soli quindici anni linciato dagli squadristi di scorta al duce. A lui è dedicata la via “principale” dell’ateneo di Bologna, nei pressi delle mura cittadine (vedi anche Il partigiano, la grande storia e le storie dei singoli oppure Il medico calabrese che salvava i partigiani ingannando i nazisti).

20-liberazione-reggio-emiliaL’Università di Bologna, che fin dai primi passi del regime si batté contro l’ideologia fascista e la Riforma Gentile, divenne una base strategica negli anni della Resistenza. Nella sede dell’Istituto di Geografia, infatti, vi erano due ricetrasmittenti con le quali il gruppo di partigiani della zona si teneva in contatto con le altre brigate italiane, mentre nella sede della Facoltà di Lettere furono nascosti depositi di armi e viveri e una serie di materiali necessari a fabbricare documenti d’identità falsi per partigiani ed ebrei in fuga. Scoperti dai nazisti, tali luoghi divennero teatro della “battaglia dell’Università”, nella quale persero la vita cinque giovani. Il complessivo tributo di sangue pagato dai militanti interni all’ateneo, se si contano docenti, studenti e personale di servizio, è tuttavia incalcolabile. È alto anche il numero di caduti interni alla Chiesa, dal ravennate don Giovanni Minzoni, al reggiano don Pasquino Borghi, ucciso con altri otto patrioti in una rappresaglia fascista. Nel Ferrarese è tristemente noto l’“eccidio del Castello estense”, perpetrato nel 1943, in cui furono fucilate undici persone scelte tra coloro che si riteneva fossero oppositori al regime. La strage è riportata in un racconto di Giorgio Bassani, Una notte del ’43.

Alla storia dei fratelli Cervi sono invece stati dedicati libri, film, canzoni; i reggiani sono stati ricordati da personaggi del calibro di Piero Calamandrei e Luigi Einaudi. Alcide Cervi (affettuosamente chiamato dagli antifascisti “papà Cervi”) è stato una figura leggendaria della Resistenza italiana. Nella notte del 25 novembre 1943 la sua umile casa in campagna a Campegine (Reggio Emilia) viene distrutta dai militi fascisti, e i suoi sette figli trascinati in carcere assieme a lui, che non volle abbandonarli, al loro compagno partigiano Quarto Camurri e a quattro stranieri. I setti fratelli – Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore – e Camurri, saranno in seguito condotti al poligono di tiro di Reggio Emilia e lì fucilati nel dicembre dello stesso anno (vedi anche Donne e uomini della Resistenza).

20-liberazione-bolognaAlcide, invece, sopravvisse al carcere e, tornato nel suo paesino, divenne un simbolo di stoica resistenza al dolore e ai soprusi, e un’inestimabile fonte di memoria di quegli anni. Celebri sono le parole da lui pronunciate in occasione della consegna di una medaglia d’oro. «Mi hanno sempre detto: “Tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta”. La figura è bella e qualche volta piango. Ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo». È in questo seme che si ritrova ancora, a settantatre anni dalla Liberazione d’Italia, il senso delle celebrazioni del 25 aprile, perché, se l’ideale di libertà è un seme da tramandare, sono tuttavia semi anche l’odio e la violenza, il fanatismo jihadista e l’intolleranza, dilaganti oggi nel nostro pianeta. Sono semi di totalitarismi che, “seccati” in una forma, si ripresentano in un’altra. Tirannidi che, alla luce del loro essere storici attentatori di democrazie, è nell’interesse di tutti non far “rigermogliare” (vedi anche La Liberazione è di tutti, non solo delle sinistre).

Foto: Il manifesto redatto dal sindaco della Liberazione di Bologna, Giuseppe Dozza (da Storia e memoria di Bologna.it); Reggio Emilia nel giorno della Liberazione (da resistenzamappe.it); Bologna nel giorno della Liberazione (da Patria indipendente.it).

Sara Spimpolo

(LucidaMente, anno XIII, n. 148, aprile 2018)

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Tags: bandierabolognacamurricervide giovanniemiliafascismoFerraraLiberazioneMussolinipartigianireggio emiliaresistenzastoriastragitotalitarismiuniversitàzamboni
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