Ovvero, il ruolo del lessico nel raggiungimento della parità di genere
Ormai i nostri lettori lo sanno. LucidaMente è una rivista pluralista, che accoglie opinioni anche in contrasto tra loro (ad esempio, Teoria gender sì, teoria gender no e Maschile, femminile e neutro: questione di “gender”, oppure, in tema di immigrazione, I falsi luoghi comuni buonisti. Parte 3: “Accogliere tutti conviene” e “Tutte le culture sono uguali” e Migranti e profughi: i numeri dell’“invasione”). Non ci si deve quindi sorprendere o valutare come una “contraddizione nella linea editoriale” il fatto che, sei mesi dopo Scrivere come vogliono le femministe: una nuova dittatura del direttore Rino Tripodi, sia ospitato un articolo dal punto di vista e dalle conclusioni diametralmente opposte. Eccolo di seguito.
Recentemente, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è espresso su quanto faccia schifo il termine ministra. Mentre la musicalità di ministro irradia l’ambiente ogni volta che la parola viene pronunciata, ministra è terribile, sgradevole e ricorda vagamente l’intruglio riscaldato della mensa scolastica. Niente da dire al riguardo. Ad esempio, il mio nome mi piace, ma ho sempre pensato che la sua versione maschile, Ludovico, fosse adatta solo a bambini – quasi sempre lombardi – viziati e con la erre moscia. Purtroppo, la mia innata repulsione non porterà alla ristampa di tutti i libri di onomastica.
Lo stesso dovrebbe valere per ministra, che altro non è, come confermato dall’Accademia della Crusca, che la corretta trasposizione al femminile del sostantivo, terminante in -o. Bisognerebbe, al contrario, chiedersi perché invece maestra, operaia e infermiera non abbiano incontrato la stessa resistenza. Si può parlare di neologismo per ministra – e, con questa, per avvocata, ingegnera, chirurga – per il semplice fatto che si tratta di impieghi precedentemente preclusi alle donne. Infatti, anche quando una versione al femminile di tali impieghi è presente, come avvocatessa, dottoressa o vigilessa, si tratta spesso di una forma con connotazione inizialmente sprezzante e ironica. Sarebbe quantomeno opportuno dare un colpo di spugna a un retaggio che – in teoria – non dovrebbe più appartenerci.
Verrà spontaneo chiedersi se sia poi così importante per l’effettiva integrazione della donna la riforma del linguaggio che, peraltro, non rispecchia la rivoluzione dei costumi. Della serie «la gente non ha il pane e voi riformate il linguaggio?», come forse ci direbbe, riportandoci alla fredda realtà, la nostra cara senatrice Paola Taverna. In effetti, se si riduce la questione a un’imposizione del politicamente corretto, se ne perdono le implicazioni fondanti. Al contrario di quello che asserisce Vittorio Sgarbi in uno dei suoi sproloqui, la problematica non è nata con Laura Boldrini.
Ha origine nella nozione di “linguistic sexism”, teorizzata negli anni Sessanta-Settanta negli Stati Uniti e ha fatto il proprio ingresso in Italia nel 1987, con la pubblicazione de Il sessismo nella lingua italiana, di Alma Sabatini, edito dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Nell’opera della studiosa si rimarca l’importanza fondamentale del linguaggio nella formazione del reale, per cui bisogna che questo sia rispettoso di entrambi i generi. Di particolare interesse, il terzo capitolo del volume, nel quale vengono elencati alcuni degli errori che quotidianamente vengono commessi, ad esempio l’uso della parola «uomo» in senso universale, o un uso asimmetrico di nomi, cognomi e titoli. Ovviamente, le «raccomandazioni» della, anzi, di Sabatini sono rimaste per lo più inascoltate e il terribile attentato alla lingua italiana è stato sventato.
Del resto, l’autrice ne era perfettamente consapevole, avendo dichiarato che «la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza – se non paura – nei confronti dei cambiamenti linguistici, che la offendono perché disturbano le sue abitudini o sembrano una violenza “contro natura”». Ultimamente, però, si è posta una maggiore attenzione da parte dei canali di informazione e se ne possono apprezzare i risultati. Sempre più si sentono i termini “ministra” o “sindaca”, nonostante molti storcano ancora il naso, dimostrando che il cammino è ancora lungo, non solo da un punto di vista lessicale.
L’inserimento graduale di una terminologia paritaria per entrambi i sessi non è un mero sofismo, ma un passo importante nella visione professionale della donna. Forse, e solo forse, quando saremo riusciti a completare questa piccola rivoluzione del linguaggio – e del pensiero – saremo riusciti anche ad accettare che una donna possa avere successo ed essere bella. Che una donna possa avere successo ed essere brutta. Che si possa esercitare diritto di critica su una donna per il suo lavoro, e non per il suo essere donna. Che una donna possa lavorare e guadagnare quanto e più di un uomo. Certamente, l’adozione di un lessico differente non è sufficiente, ma un buon inizio.
Ludovica Merletti
(LucidaMente, anno XII, n. 134, febbraio 2017)
interessante davvero. In particolare trovo molto utile fare “opposizione” al maschile plurale che oblitera il femminile!! Molto utile nello scritto, in assenza di un genere neutro che potrebbe essere rappresentato da una semplice troncatura, l’utilizzo dell’asterisco, es.: “erano presenti molt* spettator* . Certamente va combattuto l’utilizzo della parola “uomo” quando non si indica la persona di genere maschile. Ottima soluzione l’utilizzo della bella parola “Persona”. Ma che fine ha fatto il libro di Alma Sabatini? 30 anni fa!!!