Una lunga catena di delitti legati all’arte della pittura: un thriller avvincente
Altri, nuovi ritratti di Dorian Gray: questo il titolo dell’Introduzione di Rino Tripodi a L’incontro. Dipinti assassini (pp. 196, € 14,00) di Maria Cristina Buoso, terza uscita della collana di narrativa La scacchiera di Babele delle Edizioni di LucidaMente. Eccola integralmente, di seguito.
Maledetti pittori! Maledetti dipinti!
Possibile che, ogni qual volta ci imbattiamo nella letteratura che parla di loro, ci si debba immergere in storie al limite dell’irreale?
Del resto, psicologi, etnologi, antropologi, avevano già esaminato “il caso”. Superfici riflettenti, specchi, ritratti: in tutte le società primitive – ma anche meno “primitive” – ciò che riproduce l’immagine umana ha un fascino malvagio, un effetto diabolico.
Doppelganger!
Innanzi tutto, riflessi, specchi, tele, creano un “doppio”; e il Doppelganger è quanto di più perturbante – secondo la definizione di Freud – possa incontrarsi nell’immaginazione letteraria.
Adalbert von Chamisso, ne La meravigliosa storia di Peter Schlemihl, narra cosa capita a chi perde un altro nostro “doppio”: l’ombra. La condanna morale e la disapprovazione sono generali! Nel racconto La storia del riflesso perduto – incastonato entro il romanzo Le avventure della notte di San Silvestro -, Ernst Theodor Amadeus Hoffmann farà incrociare Schlemihl con un altro “disgraziato”: Erasmo Spikher. Se il primo è “l’uomo senza ombra”, il secondo è “l’uomo senza riflesso”, che, tornato a casa, sarà allontanato dalla sua stessa moglie, la quale ritiene sconveniente che in una casa “perbene” abiti un uomo simile!
In William Wilson di Edgar Allan Poe l’incontro/scontro dei sosia provoca automaticamente la catastrofe. Allo stesso modo che se la materia venisse a contatto con l’antimateria: in una stessa dimensione i doppioni non possono esistere. Anche gli automi inquietano gli scrittori del fantastico ottocentesco, perché anche essi rappresentano un nostro allarmante e ambiguo “doppio”.
Agli albori del Novecento, Gustav Meyrink riprende la dottrina ebraica del Dibbuk, secondo la quale l’io può trovarsi a lottare per evitare che un’entità incorporea se ne impossessi, facendolo divenire un “doppio” posseduto.
E, passando alla fine del XX secolo, all’immaginario contemporaneo e all’arte cinematografica, nell’enigmatico Twin Peaks del più visionario regista vivente, David Lynch, l’agente Cooper, precipitato nell’incubo della “sala della tenda rossa”, tenta di sfuggire al suo doppio, ma…
L’acqua o un vetro, che, invece di farsi attraversare dalla luce, la bloccano – anche soltanto questo è inquietante -, o i colori sulla tela: tutti questi elementi imprigionano non solo il nostro corpo, ma pure la nostra forza, la nostra energia vitale, in definitiva la nostra stessa anima. In effetti, il vampiro Dracula di Bram Stoker non riflette la propria immagine sugli specchi, essendo un già morto e, insieme, un non morto: dove sarà la sua anima?
Maledetto Oscar Wilde!
E, se i riflessi sull’acqua o sullo specchio durano pochi istanti, ciò che si impregna sulla tela è eterno o quasi…
Ecco, allora, che il quadro, nella letteratura e nei film, diventa maledetto: vive, si trasforma, imprigiona le anime, agisce maleficamente, diviene passaggio per altri mondi (del resto, tornando agli specchi, cosa accadeva alla Alice di Carroll?).
Certo, l’invenzione più famosa ed emblematica è quella di Oscar Wilde col suo Il ritratto di Dorian Gray. Come in altri casi letterari di “sdoppiamento”, non è ben chiaro l’intervento soprannaturale o diabolico, ma gli effetti non appartengono sicuramente alla sfera dei fenomeni spiegabili scientificamente.
La vicenda narrata ne L’incontro. Dipinti assassini di Maria Cristina Buoso si colloca a metà tra il naturale e il trascendente, tra la psicosi e la possessione demoniaca. Per chi lo preferisce, si tratta solo di una passione per la perfezione e per l’espressione artistica condotta fino alle estreme, folli conseguenze. Il fatto è che la “cosa” – non anticipiamo altro – funziona! Ecco, pertanto, che scivoliamo nel terreno dell’oscuro, del magico, del sovrannaturale.
L’eccezione del Male, la banalità del Bene
Il tema centrale del romanzo della Buoso, in effetti, sembra essere proprio l’ispirazione artistica, intesa secondo un’ottica romantico-decadente.
Non basta la tecnica, non sono sufficienti il talento, l’estro, la capacità creativa, occorre qualcosa di più:
“Percepisco forti potenzialità, tuttavia sembra quasi che tu abbia paura a farle venire fuori”. […] da dove viene il tuo fuoco? Lo devi sapere, altrimenti come fai a trasmettere le emozioni sulla tela?”.
Così, una crisi di creatività diventa un dramma. Eppure, accanto a questi “posseduti” dall’arte, vivono persone “comuni”.
Molti personaggi de L’incontro appartengono a una sfera banale, da vita quotidiana, di provincia. Le loro realtà esistenziali, i loro ritmi routinari, i loro gesti e i loro pensieri (sveglia, problemi di lavoro, difficoltà coi colleghi, pettegolezzi, rapporti condominiali, spuntino al bar, “pizza serale” come evento agognato) si collocano entro un orizzonte basso, quasi angusto, ben rappresentato da dialoghi scialbi, ben riportati “in presa diretta” dall’autrice.
Vicino e dentro di loro, le frustrazioni, l’emergere di un inconscio inquieto, anche affamato di sesso e piacere, e, infine, ecco la presenza dell’eccezionalità, della personalità abnorme, complessa, ma tesa al male, o, meglio, a porsi, con un nietzschianesimo di maniera, al di là del bene e del male, anzi al di sopra degli altri esseri umani, in un vortice delirante, vertiginoso e ipnotico:
“Perché di una cosa era sicura […]: che non l’avrebbero presa. Lei era al di sopra della legge degli uomini, lei era su un altro piano. Uno in cui gli altri non potevano raggiungerla”.
Il testo della Buoso, pertanto, si inserisce in un ambito estetico vicino al Decadentismo di fine Ottocento, con alcuni personaggi eccezionali e maledetti, dal sentire raffinato ma perverso.
Spostato il topos decadente nella contemporaneità, la scelta di Treviso come città in cui ambientare la fabula, risulta appropriata. Il capoluogo della Marca, infatti, da un lato, esternamente, appare un modello di provincia “perfetta”: ricchezza, ordine, perbenismo, Benetton, unica città italiana ad avere avuto nello stesso anno una squadra nei massimi campionati sportivi italiani (calcio, pallavolo, pallacanestro, rugby – gli ultimi tre sponsorizzati appunto dalla Benetton).
Dall’altro lato: un sindaco xenofobo, la maggiore densità di annunci a “luci rosse”, una società con oscuri sobbalzi nel trapasso da una civiltà contadina a una postmoderna, imperniata su consumismo e facili arricchimenti.
Una sessualità inquieta, devastante, infelice
I maggiori indizi di questi coni d’ombra, palpiti sospesi o dilatati entro interstizi rivelatori, screziature e pieghe inattese, provengono dalla sessualità: in tutto il romanzo manca una relazione sessuale e interpersonale realmente soddisfacente e felice, di lunga durata.
I personaggi, soprattutto donne, vivono la loro sessualità o come assenza, paesaggio lontano, forse vagheggiato e ancora realizzabile, forse irraggiungibile, o come tormentosa frustrazione nella relazione con l’altro, o come pulsione omosessuale. O, peggio ancora, come mescolanza ibrida e di freudiana memoria tra istinto di vita e tensione necrofila, tra piacere ed estremo sadismo, coinvolgente sia il maschio:
“Il pene […] era eretto e fiero mentre, preso dal vortice creativo, dipingeva. Quando sentì la vita della donna scorrerle tra le dita e la vide reclinare il capo, morta, si fermò. Osservò la sua creazione, si allontanò e ritornò con un lenzuolo bianco, lo stese per terra e vi adagiò sopra il corpo di lei […]; la avvolse e cominciò a strofinarlo in ogni angolo nascosto o esposto del suo corpo freddo. Poi si fermò esausto. Rimase per un attimo pensieroso, vide il suo pene ritto e feroce, aprì il lenzuolo e la penetrò godendo di gioia pura”.
sia la donna:
“”Mi dispiace, veramente”. La voce sembrava quella di una bambina impaurita obbligata a compiere un’azione perversa contro la sua stressa volontà. Sembrava un’altra persona, una invasata […]. “Ma devo, io dipingo così quei quadri che ti piacciono tanto. Tu farai parte di uno di questi, sarai magnifico ed eterno. Ti farò bello perché è bello scopare con te”. Gli montò sopra e, mentre la vita di lui sfuggiva lontano, gli ultimi guizzi dell’uomo tra le sue gambe la rendevano felice”.
Ci sembra di poter affermare, pertanto, che l’infelicità erotica assoluta che traspare ne L’incontro sia un segno dei tempi. Le donne del Duemila, dismessi i ruoli tradizionali, ma probabilmente incapaci di incarnarsi serenamente in altri, ormai prive di modelli e valori di riferimento, appaiono allo sbando, come pietrificate in materiali indecifrabili.
La totale assenza in tutto il romanzo di presenze infantili, la mancanza di desideri e sentimenti materni, l’antagonismo verso le figure maschili, la stessa virilizzazione della maggior parte dei personaggi femminili, marcano dolorosamente il panorama umano del libro, che è, poi, quello del nostro tempo.
La costruzione della pagina
Per rendere con immediatezza alcune situazioni, per rappresentare i pensieri collocandosi entro un punto di vista vicino, molto vicino, ai personaggi, la Buoso passa spesso, come tempo narrativo centrale, dal passato remoto al presente e, talvolta, fa uso del discorso libero indiretto.
Come già accennato, i dialoghi sono spesso asciutti, con un registro quotidiano.
Anche se scopriamo ben presto chi è l’omicida, l’autrice è abile a mantenere viva la tensione, attraverso un resistente filo narrativo e una mobile ottica descrittiva, con una descrizione minuziosa di ogni movimento, di ogni gesto, indagando negli orli delle personalità e degli avvenimenti, procedendo accuratamente nelle indagini, nello scavo psicologico, nella quête.
Sicché l’opera risulta essere ben più di un thriller o di un giallo, assurgendo a rappresentazione psicologica di un universo femminile variopinto, complesso, in crisi. O, ancor più, visione di una realtà esistenziale universale dolorosa e nefasta, implacabile e spietata, fredda e distante, della quale fungono da reticoli di corrispondenze simboliche alcune desolate descrizioni della natura, melanconiche fessure aperte su una fissità metafisica:
“Nel freddo della sera il bosco appariva lugubre nella foschia fredda che saliva dalla terra […] il silenzio, rotto solo dai suoni della natura, creava l’illusione di trovarsi in una cattedrale in cui ci si sarebbe dovuti sedere per raccogliersi in preghiera. Intanto la notte sopraggiungeva con le stelle e la luna”.
Fissità metafisica, che neanche il moto riesce a spezzare:
“L’aria si fermò. […] Il silenzio era grave e pesante, elettrico e cubico. Le luci delle torce si agitavano come in una danza moderna nella quale venga dimenticata la fluidità dei movimenti”.
“Attorno, la notte continuava il suo lento percorso verso il mattino”.
L’esterno si riflette sull’interiorità dei personaggi, come nel seguente brano:
“Il tempo gli pareva pulsasse ad un ritmo diverso. Tutto appariva veloce e dilatato, creando uno strano effetto di riflessi e di suoni che si rincorrevano, ed egli, in mezzo a loro, sembrava trovarsi all’interno di una bolla che rifletteva fuori la vita che palpitava, lasciandolo indifferente”.
O in quest’altro:
“[…] il freddo le era entrato dentro creandole angoscia e incubi. […] i ricordi avevano iniziato a emergere come onde sotto la luna”.
Sebbene resti, alfine, la speranza della gioia, nella sessualità, nei sentimenti e nella creazione artistica:
“[…] aveva avvertito il richiamo dei colori, della tela bianca. Delle immagini si erano create nella sua mente e chiedevano di venire liberate. E lei le liberò, e la gioia che provava, mista alla stanchezza, era meglio del sesso, meglio di un bagno alla luce delle candele, meglio di una pizza e perfino meglio di una serata passata a parlare con la migliore amica. Era una sensazione nuova, inebriante e sconvolgente. Ma la faceva sentire viva”.
L’immagine: la copertina della raccolta di racconti, con l’illustrazione Fiore, rielaborazione grafica di Germana Luisi.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno II, n. 5 EXTRA, supplemento al n. 17, 15 maggio 2007)